Perdita mantenimento divorzile se si forma una famiglia di fatto
Con la pronuncia in commento (Corte di Cassazione, Sez, I, 3 aprile 205, n. 6855), la Suprema Corte di Cassazione, discostandosi dalla giurisprudenza nettamente maggioritaria, ha statuito la definitiva perdita dell’assegno, da parte del coniuge divorziato, qualora questi formi una nuova famiglia di fatto.
La vicenda prendeva avvio nel 2004, quando, con ricorso dinanzi al Giudice di prime cure, una delle parti, chiedeva dichiararsi, nei confronti dell’altra, la cessazione degli effetti civili del matrimonio con esclusione dell’assegno divorzile.
La resistente non si opponeva al divorzio, ma chiedeva che le venisse riconosciuto il diritto all’assegno divorzile.
Il Tribunale adito, definitivamente pronunciando sulla questione, dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio, riconoscendo, altresì, l’assegno divorzile con decorrenza dal mese successivo alla pubblicazione della sentenza definitiva datata maggio 2010.
La decorrenza dell’assegno subordinatamente alla sentenza definitiva, motivava il ricorso in Corte d’Appello, ove, appunto, si chiedeva il riconoscimento di una decorrenza anteriore.
In tale sede, si costituiva in via incidentale l’altra parte per il rigetto totale del gravame, insistendo sull’esclusione di ogni assegno.
La Corte rigettava l’appello incidentale ed accoglieva parzialmente l’appello principale, disponendo, pertanto, la decorrenza dell’assegno dal passaggio in giudicato della sentenza non definitiva di divorzio.
Convivenza stabile dell'Ex coniuge
Con ricorso in Cassazione si lamentava, in primo luogo, la violazione dell’articolo 5 della L. 898/1970, nonché, il vizio di motivazione per non aver tenuto conto, la Corte di merito competente, della stabile convivenza dell’ex coniuge; convivenza, questa, costituente una vera e propria famiglia di fatto, tale da escludere la corresponsione dell’assegno divorzile anche nell’ipotesi in cui ci si trovasse dinanzi alla cessazione del rapporto.
Come si evince dalla rapida ricostruzione fattuale, le parti sostenevano due contrapposte tesi di diritto. Da un lato, la prima tesi, peraltro avallata dalla giurisprudenza maggioritaria sino alla pronuncia in commento, e tesa ad affermare che, la convivenza more uxorio, non debba considerarsi un fatto comportante, automaticamente e definitivamente, la negazione del diritto all’assegno, potendo, lo stesso, esser riproposto in caso di rottura del rapporto di fatto.
Dall’altro lato, invece, la tesi innovativa sostenuta dal ricorrente in Cassazione che ha trovato piena approvazione proprio nella pronuncia commentata.
I Giudici della Prima Sezione, ribaltando l’orientamento diretto a riconoscere una sorta di “quiescenza” del diritto all’assegno, si sono indirizzati per la definitiva perdita dello stesso nel caso in cui l’ex coniuge, con una scelta libera e consapevole, intraprenda una relazione more uxorio.
Non si può prescindere, infatti, si legge in motivazione, dalla piena assunzione del rischio anche della possibile rottura del rapporto.
Inoltre, non va tralasciata la situazione in cui si andrebbe a trovare il coniuge nuovamente obbligato al versamento.
Queste, le dirimenti motivazioni che hanno supportato l’innovativa pronuncia: in definitiva, per la Prima Sezione della Cassazione, andrebbe rivisto quell’orientamento che afferma la possibilità di una “reviviscenza” dell’obbligo solidale al versamento dell’assegno qualora la situazione di convivenza di fatto dell’ex coniuge venga a cessare.
Tali conclusioni rappresentano una significativa inversione di tendenza rispetto al precedente orientamento; altresì, pongono in primo piano il dibattito sulla rilevanza giuridica delle convivenze more uxorio.
Nelle convivenze more uxorio manca del tutto il momento genetico costituito dall’atto matrimoniale, rileva il comportamento duraturo e protratto nel tempo dai conviventi.
Famiglia di fatto? Perdi il mantenimento divorzile
Per poter parlare propriamente di famiglia di fatto, elemento indefettibile è sicuramente l’affectio coniugalis: trattasi di relazione interpersonale connotata da stabilità, di natura affettiva, che si manifesta in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza materiale e morale.
Il problema fondamentale, che comporta anche posizioni giurisprudenziali tra loro distanti, consiste nell’individuare un fondamento normativo, in assenza di specifica legislazione, che consenta di attribuire rilevanza giuridica ad un rapporto che, come detto, si svolge su un piano meramente formale.
In dottrina, vi è chi, richiamando l’art. 29 Cost., ha individuato, in questo, un limite all’eventuale riconoscimento di ulteriori modelli familiari differenti da quello fondato sul matrimonio.
Altri autori, al contrario, hanno sostenuto la piena equiparazione al modello coniugale, di modelli di convivenza che prescindano dal matrimonio (seppur ne presentino i contenuti di stabilità e durevolezza).
La tesi intermedia, è sicuramente quella abbracciata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, per la quale, al rapporto di fatto connotato da stabilità, va riconosciuta una rilevanza giuridica pur senza giungere ad una totale equiparazione con la famiglia legittima.
La convivenza more uxorio, pertanto, andrebbe inserita a pieno titolo nell’ambito delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost. Dunque, il diverso fondamento tra famiglia legittima (art. 29 Cost.) e famiglia di fatto (art. 2 Cost.), ne comporterebbe un differente trattamento giuridico, in coerenza, pertanto, con il principio di ragionevolezza, per il quale, situazioni differenti non possono essere equiparate.
Appare evidente che, la delicatezza dell’argomento, non ha agevolato la formazione di un indirizzo interpretativo unico.
Oggi, con la pronuncia in commento, più che sopito, il dibattito appare rinvigorito.
Analizzando tale sentenza in collegamento con altre pronunce, è ben possibile coglierne l’innovatività.
Difatti, con altro recente intervento (Cass. Civ. sez. I, 12 febbraio 2013, n. 3398), la giurisprudenza ribadiva la spettanza dell’assegno di divorzio ancorché l’ex coniuge avesse intrapreso una convivenza more uxorio. Ciò per il fatto che, la corresponsione dell’assegno “deve essere incentrata su un criterio assistenziale che non soffre limitazioni temporali, in quanto l’obbligo di solidarietà post-coniugale non viene meno per il mero decorso del tempo”.
Ancora, a porre in rilievo la clamorosa inversione di tendenza rispetto al passato, possono esser citati ulteriori interventi del Supremo Consesso (in tal senso, Cass. Civ., sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1179 e Cass., civ., sez. I, 10 novembre 2006, n. 24056) dove si disponeva che il diritto all’assegno di divorzio, in linea di principio, non poteva essere automaticamente negato per il solo fatto che il suo titolare avesse instaurato una convivenza “more uxorio” con altra persona.
Precisamente, per le summenzionate decisioni, la convivenza influiva solo sulla misura dell’assegno, qualora venisse fornita la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, di un’influenza “in melius” sulle condizioni economiche dell’avente diritto a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o, quanto meno, la prova di apprezzabili risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza.
Si evince chiaramente la portata innovativa della pronuncia in commento se paragonata alla costante linea interpretativa fornita sinora della Suprema Corte interrogata sulla questione.
Attribuzione del mantenimento dopo il divorzio
La sentenza affronta diversi istituti giuridici; in primo luogo, la tanto dibattuta questione circa l’inquadramento che fornisce il panorama normativo e giurisprudenziale italiano alla famiglia di fatto o convivenza more uxorio.
In merito a ciò, ed alle diverse tesi, si è già discusso nel presente articolo.
Appare opportuno, dunque, un cenno all’altro istituto coinvolto: l’attribuzione dell’assegno divorzile.
L’assegno post matrimoniale è un entrata vitalizia, che, a seguito del divorzio, spetta all’ex coniuge che non abbia un reddito sufficiente a mantenere il tenore di vita matrimoniale.
L’art. 5, comma 6, legge sul divorzio, detta quelli che sono i presupposti del diritto all’assegno divorzile, identificandoli nella mancanza di un reddito sufficiente a garantire all’ex coniuge il tenore di vita che godeva o avrebbe dovuto godere durante il matrimonio e l’inferiorità della sua posizione economica rispetto all’altro coniuge.
L’inadeguatezza dei mezzi economici, secondo la giurisprudenza, deve essere valutata tenendo conto della capacità di lavoro e di reddito patrimoniale dell’ex coniuge. All’interno di tale orientamento, si è specificato, poi, che nel valutare la capacità di reddito patrimoniale bisogna considerare anche il vantaggio economico costituito dal godimento diretto dei beni.
La legge testualmente dispone che l’assegno spetti al coniuge divorziato che “non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
La norma fonda la sua ratio nell’esigenza di non far gravare sul coniuge divorziato l’inerzia e la negligenza dell’altro; infatti, non si può pretendere, tra gli ex coniugi, la stessa solidarietà che, sotto il profilo patrimoniale, caratterizza il matrimonio.
I citati presupposti, infatti, non consentono di identificare il diritto all’assegno di divorzio col diritto all’assistenza materiale che spetta al coniuge in costanza di matrimonio ex art. 143, co 2 c.c., poiché col divorzio si estingue, appunto, ogni vincolo solidaristico di tipo prettamente coniugale.
A tal proposito, appare utile osservare che, la prevalente dottrina, attribuisce all’assegno di divorzio una funzione prevalentemente “assistenziale”, come risulta confermato anche dalle legge del 1987 di revisione del divorzio.
Si parla, in effetti, di un’esigenza sociale a tutela del coniuge debole, qualificata come solidarietà “post coniugale” che si sostanzia nel dovere di aiutare economicamente l’ex coniuge. Il riferimento normativo di maggiore importanza è, pertanto, l’art. 5 della legge sul divorzio, il quale è stato dalla giurisprudenza unanimemente interpretato nel senso che, l’accertamento del diritto all’assegno di divorzio venga articolato in due fasi. Nella prima, il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza e/o impossibilità di procurarsi mezzi di sostentamento.
Nella seconda fase, invece, il giudice deve procedere alla concreta determinazione dell’assegno in base alla valutazione ponderata dei criteri di cui allo stesso art. 5 della legge sul divorzio (condizioni dei coniugi; ragioni della decisione; contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune; reddito di entrambi; valutazione dei suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio).
Per quanto concerne più precisamente la sentenza commentata, è opportuno, in ultima analisi, chiarire come, più che considerare i criteri che influiscono sulla determinazione dell’assegno, il caso esaminato, si è concentrato sulla decisione circa la spettanza o meno dell’assegno stesso.
E’ in questo, infatti, che può esser colta la portata innovativa della pronuncia.
Sul panorama giurisprudenziale si va delineando una certa rilevanza giuridica dei rapporti di fatto, a dispetto di una totale assenza di riferimenti normativi.
La pronuncia della Prima Sezione, rinvigorisce il dibattito sull’esatta qualificazione giuridica di quei rapporti che si svolgono su un piano formale e si fa portavoce dell’esigenza di interventi normativi sul punto. Appare necessaria, ormai, un’azione normativa chiarificatrice sulla questione, anche alla luce della dimensione ormai considerevole del fenomeno.