Rifiuto d'atti d'ufficio del direttore sanitario per omissione del contrasto all'infezione di Legionella
In Italia esiste una importante stratificazione normativa che consente ed obbliga il Direttore Sanitario di qualsiasi struttura ospedaliera a prevdere ingenti voci di spesa relative all'applicazione dei protocolli previsti per il contrasto delle infezioni nosocomiali.
Purtroppo, però, molto spesso il dirigente preferisce impegnare le risorse economiche su aspetti "più visibili", omettendo di contrastare un invisibile pandemia che porta morte e dolore.
Di seguito un interessante pronuncia di Cassazione che si esprime sul rifiuto d'atti d'ufficio ex art. 328 cp del Direttore Sanitario che ometta di contrastare una infezione di legionella nel nosocomio, o comunque applichi discrezionalmente gli interventi ritenuti necessari, con riqualificazione dell'imputazione in omicidio colposo plurimo ex art. 589 codice penale.
FATTO E DIRITTO
N.M., nella qualità di direttore generale dell'Azienda provinciale di Trento per i Servizi Sanitari, C.M., responsabile della Direzione e Approvvigionamenti Servizi generali e tecnici di tale azienda, G.A., responsabile della Direzione Igiene e Sanità della stessa, nonchè Mo.Se., direttore dell'ospedale (OMISSIS) di (OMISSIS), venivano chiamati a rispondere dei delitti di rifiuto di atti di ufficio (art. 328 c.p.), per non aver approntato negli anni 1998 - 1999 tutti gli strumenti idonei e necessari per evitare il diffondersi del morbo della legionella all'interno dell'ospedale di Trento, di aver colposamente cagionato un'epidemia di legionellosi nello stesso ospedale dando luogo a diffusione incontrollata di germi patogeni che proliferavano all'interno dell'impianto idrico della struttura sanitaria (art. 452 c.p. in relazione all'art. 438 c.p.), di aver determinato con le omissioni contestate la morte di tre persone, che avevano contratto il morbo cd. del legionario nel predetto ospedale (art. 81 cpv. c.p., e art. 586).
Il GUP del Tribunale di Trento, a seguito di giudizio abbreviato, con sentenza in data 21 aprile 2005, assolveva tutti gli imputati dai reati loro contestati, tranne Mo.Se., ritenuto colpevole del reato di rifiuto di atti d'ufficio.
Il GUP, in conformità alle conclusioni del P.M. e delle stesse parti civili, escludeva la configurabiltà del reato di epidemia, il più grave tra quelli contestati alla luce del numero limitato di malati, in base al quale, anche nel periodo di maggiore sviluppo della infezione, cioè nel gennaio - marzo 1999, non era consentito di esprimere un giudizio di rapida diffusione della malattia, in un dato territorio o nell'ambito di un gruppo demografico.
Quanto al reato di rifiuto di atti di ufficio, la sentenza operava una ricostruzione della vicenda, distinguendo il periodo del 1998 dal 1999 e le posizioni degli imputati appartenenti alla Azienda provinciale per i servizi sanitari da quella del Direttore dell'ospedale.
Sotto il primo profilo, il giudice di primo grado affermava, richiamando gli esiti della perizia tecnica d'ufficio Trenchi - Verga, che nel 1998 non era stata dimostrata la sussistenza dei presupposti di urgenza e di eccezionalità dei provvedimenti invocati dall'accusa (neanche per giustificare un acquisto che derogasse alle regole in tema di acquisti della P.A.) e, pertanto, non vi era un dovere di intervento sanzionato ex art. 328 c.p..
Con riferimento a quanto avvenuto nel 1999, il giudicante riteneva la sussistenza dei presupposti della indifferibilità ed urgenza, in considerazione dei rilevamenti allarmanti e dell'accertamento di due casi certi di contaminazione (e dei dubbi su di un terzo).
Tuttavia, escludeva la responsabilità penale ex. art. 328 c.p. degli imputati M.G. e N. facendo riferimento al contenuto delle loro competenze e dei rispettivi poteri, limitati alla realizzazione ed alla gestione dell'impianto di bonifica. Sul punto evidenziava che gli imputati si erano impegnati in tal senso con sedici interventi di manutenzione in pochi mesi e con un diverso approccio tecnico all'apparecchio di bonifica e che non sarebbe stato esigibile dagli stessi un altro tipo di intervento.
Condotta inadeguata dei medici dal punto di vista tecnico culturale
A ciò aggiungeva che detti interventi, secondo quanto dichiarato dagli stessi periti d'ufficio, si erano in concreto manifestati idonei a far fronte alle necessità sanitarie nel breve termine, determinando, dopo marzo, un decremento dell'infezione e del numero dei pazienti contagiato.
Osservava, infine, che il comportamento degli imputati era stato certamente inadeguato, dal punto di vista tecnico culturale, ad affrontare tale tipo di problematica, ma, in quanto tale, l'unico tipo di addebito in concreto contestabile avrebbe potuto essere colposo e non doloso.
Diversa era la conclusione in relazione al Mo., a carico del quale, in virtù della funzione di garanzia ricoperta, venivano individuati i seguenti doveri omessi: di segnalare l'emergenza al personale medico, perchè potesse intervenire con idonea terapia medica antibiotica, non appena si fosse presentato un caso di affezione polmonare; di emanare istruzioni specifiche ai suoi dipendenti, almeno volte a lasciar scorrere l'acqua dalle derivazioni e di evitare esposizioni a rischio; di avvisare i degenti a rischio o almeno i loro parenti.
Con riferimento al reato ex art. 586 c.p. il giudice di primo grado affermava che la stessa perizia tecnica di ufficio aveva negato implicitamente la sussistenza di un rapporto di causalità tra la infezione ed i decessi, laddove precisava che i casi di legionella accertati non si erano verificati nei reparti in cui l'infezione era stata di più elevato grado, ma in altri in cui i pazienti erano maggiormente recettivi, cosi che non era certo che il concentrarsi di polmonite nosocomiale fosse legato in modo diretto alla elevata concentrazione di legionella, potendo astrattamente essere dovuto ad una casuale elevata presenza contemporanea di pazienti altamente recettivi. Mancando, pertanto, una certezza logica che la materiale adozione da parte del Mo. degli interventi - la cui omissione di fatto gli era stata addebitata - avrebbe evitato o ritardato in modo significativo la produzione dell'evento morte, era da escludersi la rilevanza causale della condotta al medesimo ascritta. Nè il rilevante incremento del rischio di infezione, aggravatosi ulteriormente per le omissioni contestate all'imputato, consentiva di ritenere la sussistenza del nesso di causalità.
La Corte di appello di Trento con sentenza in data 11 gennaio 2006, in parziale riforma della sentenza di primo grado, assolveva Mo.Se. dal reato di rifiuto di atti d'ufficio con la formula perchè il fatto non sussiste, confermando le altre statuizioni.
In sostanza, con riferimento alla conferma della sentenza di assoluzione per il reato di rifiuto di atti d'ufficio, la corte di merito riteneva di condividere l'impostazione adottata dal giudice di primo grado, che aveva operato una ricostruzione distinguendo il periodo del 1998 dal 1999.
Aggiungeva che l'esito del processo era stato condizionato dalla "peculiare decisione iniziale" della pubblica accusa di addebitare a tutti gli imputati un reato omissivo a natura dolosa a fronte di condotte che più opportunamente avrebbero potuto forse essere perseguite come colpose e che proprio tale impostazione aveva indotto il P.M. e le parti civili a porre l'accento su un generico atteggiamento comune di inerzia degli imputati nella gestione dell'impianto di bonifica, senza individuare le singole condotte e gli specifici provvedimenti che ciascuno di essi avrebbe potuto adottare in relazione alla propria posizione di garanzia. Passando poi ad analizzare la posizione degli imputati M., N. e G., che sarebbero stati evocati in giudizio con riferimento alla posizione di garanzia dagli stessi ricoperta limitatamente alla gestione del sistema idrico dell'ospedale, i giudici di appello affermavano che le doglianze delle parti appellanti non avevano tenuto conto che la presa d'atto da parte degli imputati della esistenza dell'endemico problema della diffusione della legionella in ambito ospedaliero, peraltro non caratterizzato alla data del (OMISSIS) dalla presenza di indici allarmanti, con la conseguente decisione di affrontarlo facendo ricorso ad una apparecchiatura sperimentale, non avrebbe determinato una situazione di fatto che in ogni caso imponesse agli imputati l'urgente e doverosa attivazione di condotte diverse e ulteriori.
In sostanza, la nota con la quale in data 20.1.1998 il N. delegava a M. e G. le attività necessarie per la risoluzione del problema con l'adozione di una macchina innovativa di disinfezione sul circuito di acqua calda non era stata determinata da una situazione contingente ed eccezionale di allarme del morbo ma ad una lodevole iniziativa intrapresa per sconfiggere la legionella.
Conferma in tal senso poteva essere rinvenuta nel precedente provvedimento di archiviazione adottato dal GIP in data 20.1.1998 nell'ambito di un procedimento ex art. 328 c.p. a carico del Mo. per la medesima imputazione.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Trento, su istanza delle parti civili.
Il Procuratore generale, dopo una parte introduttiva con la quale delinea la portata innovativa della L. n. 46 del 2006 in merito ai principi in tema di vizio della motivazione, lamenta l'omessa valutazione di una prova decisiva ed il travisamento di una prova decisiva per introduzione di una prova errata al posto di quella corretta, censurando le conclusioni dei giudici di appello in relazione alla ritenuta insussistenza del reato di rifiuto di atti d'ufficio.
La sentenza viene censurata laddove afferma che non vi sarebbe stata emergenza nel 1998, traendone la conseguenza che non era possibile pretendere alcun comportamento dagli imputati rilevante ai fini del reato ex art. 328 c.p.. Tale conclusione non terrebbe conto di prove decisive, riguardanti tre casi di legionella, diagnosticati tra aprile e dicembre del 1998; in quelle occasioni erano stati altresì rilevati in laboratorio valori di Ufc (unità facenti cultura) di legionella di gran lunga superiori alle 10.000 unità (dato pacifico in cui è necessario intervenire).
Si censura la sentenza anche nella parte in cui afferma che, a fronte della situazione di indifferibilità e di urgenza verificatasi nel primo trimestre nel 1999, erano stati realizzati i dovuti interventi diretti a garantire il funzionamento della macchine di disinfezione, non riusciti per oggettive carenze tecniche e culturali. L'unico comportamento in concreto esigibile dagli imputati, secondo tale impostazione, sarebbe stato quello di far funzionare la macchina rivoluzionaria. Sul punto, sostiene il ricorrente che i giudici dell'appello avrebbero omesso di valutare talune prove decisive dalle quali emergeva che la situazione di emergenza era ben nota dall'ottobre del 1998 e che si sarebbe potuto raggiungere il risultato della completa distruzione del microrganismo con l'introduzione manuale del diossido di cloro in concentrazioni elevate.
Oggetto di censura è anche la motivazione posto a fondamento della pronuncia di assoluzione a favore del Mo., fondata sulla considerazione che nessuna delle iniziative individuate dal GUP come gravanti sull'imputato e dallo stesso omesse erano previste da specifici protocolli e, pertanto, la mancata attuazione di dette misure non poteva essere attribuita in nessun modo al Mo. a titolo di omissione dolosa. Dette misure erano state individuate dal GUP nei seguenti comportamenti: la segnalazione dell'emergenza in atto al personale medico per l'adozione delle terapie antibiotiche, la direttiva ai dipendenti di lasciar scorrere l'acqua dalle derivazioni, l'adozione di forme di avviso ai degenti ed ai loro pazienti.
Sostiene il ricorrente che i giudici dell'appello avrebbero omesso di valutare delle prove decisive da cui emergeva la sussistenza di pubblicazioni in possesso dell'imputato sugli strumenti di contrasto cautelare in situazioni di emergenza (v. Notiziari dell'Istituto superiore della sanità in atti) e che lo stesso Mo. era a conoscenza della situazione di emergenza del gennaio - febbraio 1999 e degli strumenti per porvi rimedio (v. corrispondenza intercorsa tra l'imputato ed il dott. C., responsabile dell'Unità operativa prevenzione ambientale).
La sentenza non avrebbe poi affrontato il problema del nesso causale:
sul punto il ricorrente richiama lo specifico motivo di appello, che, con riferimento ai principi affermati dalla nota sentenza Francese delle Sezioni unite della Cassazione, osservava che un corretto giudizio controfattuale avrebbe rilevato che: il buon funzionamento della macchina per il biossido di sodio avrebbe portato all'azzeramento della presenza di legionella nel sistema idrico dell'ospedale (in conformità alle conclusioni del C.T. Sebastiani);
un comportamento conforme del Mo. alle linee guida all'epoca vigenti (quelle del CDC del 1997, che prescrivevano l'adozione di opportune terapie antibiotiche in casi di pazienti a rischio con malattie polomonari), avrebbero consentito di evitare o apprezzabilmente ritardare i tre decessi verificatisi nel marzo 1999 indiscutibilmente a causa della legionella. Sotto tale profilo si precisava altresì che il comportamento dei tre imputati, a vario titolo responsabili del Servizio sanitario della Provincia, dal quale era conseguita la propagazione delle cariche batteriche, si poneva, in applicazione del principio dell'equivalenza delle cause ex art. 41 c.p., comma 2, come concausa dei decessi, unitamente al comportamento omissivo del Mo., che non aveva posto in allarme i sanitari (v. atto di appello del P.M.). Con un ulteriore motivo denuncia la manifesta illogicità intrinseca del provvedimento impugnato e l'erronea applicazione della legge penale. Sotto tale profilo, contesta, innanzitutto, la premessa teorica del percorso ricostruttivo operato dalla Corte di appello, secondo la quale la presa d'atto da parte degli imputati della esistenza dell'endemico problema della diffusione della legionella in ambito ospedaliero, peraltro non caratterizzato alla data del (OMISSIS) dalla presenza di indici allarmanti, con la conseguente decisione di affrontarlo facendo ricorso ad una sperimentale apparecchiatura, non avrebbe determinato una situazione di fatto che in ogni caso imponeva agli imputati l'urgente e doverosa attivazione di condotte diverse e ulteriori. Così ragionando, la Corte di merito illogicamente non avrebbe tenuto conto dei principi in tema di obblighi gravanti sui titolari di posizioni di garanzia, in forza dei quali, nel caso in esame, agli imputati era affidata la vita e la incolumità dei pazienti dell'ospedale. A tali obblighi i ricorrenti erano venuti meno allorquando, confidando nel buon funzionamento della nuova macchina per bonificare l'impianto idrico avevano abbandonato ogni altra cautela e, al venir meno del suo funzionamento (incontestabilmente dal (OMISSIS)), avevano omesso ogni altro intervento., pur essendovi tenuti in forza della delega emessa dal N. in data (OMISSIS). Alla luce di tale ultimo atto, con il quale erano stati stabiliti criteri e metodi per la tutela della salute dei degenti, il non attivarsi per il funzionamento della macchina destinata alla bonifica dell'impianto idrico, avrebbe implicato la dolosa "omissione" di un atto del proprio ufficio, dovendosi ritenere dolosa anche la consapevolezza dell'urgenza di provvedere in considerazione della smisurata crescita del batterio nelle tubature, che puntualmente si era realizzata.
Con particolare riferimento alla posizione del Mo., direttore dell'ospedale di Trento, il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui annulla la pronuncia di condanna, soffermandosi illogicamente sul contenuto della condotta alternativa lecita esigibile, tralasciando di verificare invece, in via preliminare, la sussistenza dell'obbligo di intervenire in capo all'imputato. Sotto tale profilo, si sottolinea che il Mo., nella sua specifica posizione di garanzia, era tenuto a tutelare la salute dei pazienti a lui affidati mentre si era limitato a sollecitare gli altri imputati, inottemperanti alla delega del (OMISSIS), a fare qualcosa, omettendo altresì di informare i primari dei reparti interessati del contagio.
E' stata ritualmente depositata una rinuncia alla costituzione di parte civile degli eredi G..
E' stata altresì ritualmente depositata una memoria difensiva nell'interesse degli imputati con la quale si contesta l'ammissibilità del ricorso presentato dalla Procura generale, mancando ogni prova della omissione da parte di un pubblico ufficiale di una attività obbligatoria contestuale ad una volontà dolosa da parte dello stesso. Al contrario, si sostiene, che fin dal primo manifestarsi del morbo della legionella vi sarebbe in atti la prova, correttamente valutata dalla Corte di merito, di una immediata reazione difensiva da parte di tutti gli imputati rivolta a bloccare la fonte stessa del morbo mediante l'acquisto, fra i primi in Italia, di nuovi strumento atti al controllo della presenza del morbo nelle conduttore idriche. Sarebbe, pertanto, frutto di travisamento da parte del ricorrente l'affermazione di una dolosa decisione da parte degli imputati di non agire, laddove, anche a volere ammettere in astratto l'ipotizzabilità di un qualche ritardo od omissione, l'addebito non potrebbe che essere a titolo colposo e, come tale, incompatibile con il delitto di cui all'art. 328 c.p..
Infine si contesta l'ammissibilità del rinvio ai motivi di appello in relazione al nesso causale, anche sotto il profilo della omessa specificazione in merito a quale appello il ricorrente abbia voluto fare riferimento.
Il ricorso è parzialmente fondato, sia pure per motivi diversi da quelli prospettati dal ricorrente.
Con riferimento al reato di cui al capo a) della rubrica, è' inutile soffermare l'attenzione sui limiti del controllo attribuito alla Corte di cassazione anche dopo la novella introdotta con la L. n. 46 del 2006, su cui pure diffusamente si sofferma il ricorrente.
Ciò in quanto, assorbentemente, va rilevato che non ricorrono qui i presupposti per contestare il reato di rifiuto di atti d'ufficio, con conseguente inaccoglibilità del gravame.
Come è noto, l'art. 328 c.p., comma 1 punisce l'indebito "rifiuto" da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio di compiere un atto d' ufficio che deve essere posto in essere "senza ritardo" in vista della soddisfazione delle specifiche esigenze (di giustizia, di sicurezza pubblica, di ordine pubblico, di igiene e sanità) prese in considerazione dalla norma.
L'atto d'ufficio rifiutato preso in considerazione dalla norma non è sufficiente che sia un "qualsivoglia" atto d'ufficio.
Deve infatti trattarsi di un atto "qualificato" dall'appartenenza ad una delle categorie "tipiche" espressamente prese in considerazione dalla norma: giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità.
L'atto rifiutato per rilevare ex art. 328 c.p., comma 1, oltre ad essere qualificato nei termini suesposti, deve presentare i caratteri della "doverosità" e della "indifferibilità": trattasi anche in questo caso di dati inequivocabilmente ricavabili dalla formula della norma (il rifiuto deve essere "indebito" e l'atto va compiuto "senza ritardo").
Sotto il primo profilo, è decisivo osservare come la norma qualifichi il rifiuto come "indebito": il rifiuto penalmente significativo non può riguardare un atto discrezionale; deve riferirsi, invece, ad un atto dovuto, imposto al pubblico funzionario da una norma imperativa immediatamente precettiva, di rango primario o addirittura di rango costituzionale, che imponga di provvedere per la tutela di specifici beni ritenuti meritevoli di tutela.
L'atto rifiutato incriminabile, inoltre, deve essere "indifferibile" ed "urgente", come si desume dalla locuzione "senza ritardo" contenuta nella norma penale. Il requisito dell'indifferibilità" può desumersi o ex se, direttamente da un'esplicita previsione normativa, ovvero dalle emergenze fattuali della vicenda, indicative, in modo inequivoco, della necessità inderogabile ed indilazionabile dell'adozione di un determinato atto d'ufficio posto dalla norma a carico del pubblico funzionario.
Or bene, può convenirsi sul fatto che gli atti di cui qui si discute rientrino, almeno in via di ipotesi, in quelli presi in considerazione dall'art. 328 c.p., in particolare nel genus degli atti in materia di sanità e di igiene, dovendosi ritenere che rientrino in tale materia gli atti connessi alla tutela della salute individuale e collettiva.
Può anche convenirsi, in via di ipotesi, sul fatto che le specifiche circostanze della vicenda (nei termini prospettati dal ricorrente, che qui contesta la ricostruzione del giudice di merito) fondassero le condizioni per l'"indifferibilità" di un intervento finalizzato, secondo la prospettazione dell'accusa, a salvaguardare la salute dei degenti della struttura sanitaria dal rischio di infezione.
E però, assorbentemente, difetta il requisito della "doverosità" dell'atto.
Infatti, come si è accennato, per la configurabilità del reato non basta che l'atto rientri in una delle categorie tipizzate, nè che possano ritenersi sussistenti le condizioni per un intervento "urgente" ed "indifferibile", occorrendo che ricorra anche l'altro presupposto concorrentemente previsto dalla norma: deve trattarsi, quindi, di un atto non solo "tipico" ed "indifferibile", ma anche "doveroso", cioè tale che il pubblico ufficiale è tenuto ad eseguire senza godere di alcuna discrezionalità al riguardo (cfr. Cass., Sez. 6^, 21 settembre 1995, Durante).
La "doverosità" dell'atto che deve essere eseguito si correla al carattere "indebito" del rifiuto di eseguirlo.
In altri termini, il rifiuto per rilevare penalmente ex art. 328 c.p., comma 1, deve risultare "indebito", cioè contrario ad una norma imperativa, di rango costituzionale o comunque primario, che imponga in via immediata e diretta al pubblico funzionario l'adozione dell'atto, e deve riguardare, quindi, un "atto dovuto".
La "doverosità" dell'atto da compiere, quindi, esclude dall'ambito di applicazione della norma gli atti rientranti nell'ambito della discrezionalità amministrativa (cfr. Cass., Sez. 6^, 9 ottobre 1997, Proc. gen. App. Potenza in proc. De Muro).
Trattasi, in relazione alla rilevata esclusione degli atti discrezionali, di una differenza significativa tra la disposizione incriminatrice de qua e quella prevista dal successivo art. 328 c.p., comma 2 giacchè l'omissione e/o il ritardo in tale ultimo reato considerati possono riguardare anche atti "discrezionali".
Or bene, qui risulta evidente che non può parlarsi di un'attività vincolata che poteva e doveva essere posta in essere, vertendosi piuttosto nell'ambito di interventi intrinsecamente caratterizzati da una evidente discrezionalità tecnica, rispetto ai quali le determinazioni in proposito assunte dagli imputati avrebbero semmai potuto e dovuto essere censurate (laddove ritenute in concreto inidonee e laddove fosse stato dimostrato il nesso eziologico con i decessi in contestazione) sotto il profilo della colpa, ma non certo ricorrendo ad una contestazione qualificata dall'atteggiamento doloso quale quella di che trattasi.
Infatti, non va trascurato di considerare che per la sussistenza del reato di cui all'art. 328 c.p. è ovviamente necessario il dolo.
La norma, infatti, richiede, per la rilevanza penale del rifiuto, che questo sia "indebito": occorre cioè nell'agente non solo la consapevolezza e la volontà di rifiutare un atto del proprio ufficio, ma anche la consapevole volontà di agire in violazione dei doveri impostigli (cfr. Cass., Sez. 6^, 15 aprile 2003, Zurzolo ed altro; Cass., Sez. 5, 17 ottobre 1990, Rampa). In altri termini, è necessaria nell'agente la consapevolezza delle ragioni (qui, quelle di igiene e sanità) che qualificano l'atto da compiere, della "doverosità" dell'atto e della sussistenza delle ragioni di urgenza che impongono di agire "senza ritardo".
E' situazione di cui qui, proprio attraverso l'apprezzamento della contestazione, della ricostruzione dei fatti effettuata dai giudici di merito e delle stesse ragioni prospettate dal ricorrente, difettano ictu oculi i presupposti.
L'insussistenza del reato di cui all'art. 328 c.p. rende inutile soffermare l'attenzione sulla residua contestazione di cui all'art. 586 c.p., oggetto del ricorso, rispetto alla quale, peraltro, si deve comunque apprezzare la genericità delle doglianze, che condurrebbero già di per se al rigetto del gravame.
Il ricorso non va, però, rigettato essendo investito il giudice di legittimità del problema della corretta fattispecie criminosa da contestare agli imputati. Invero, come in altre occasioni rilevato (v. Cass., Sez. 5^, 23 novembre 2006, Capobianco ed altri, ed i riferimenti in essa contenuti), già sotto la vigenza del precedente codice di rito, si era ritenuto che la Corte di cassazione, in quanto organo giusdicente cui è attribuito il potere della uniforme interpretazione del diritto, una volta che i motivi del ricorso abbiano investito la definizione giuridica del reato, anche se sotto profili di diritto non dedotti dal ricorrente, deve attribuire al fatto l'esatta definizione giuridica. L'assunto è rimasto fermo sotto la vigenza del nuovo codice, essendo stato stabilito (v. sentenza sopra citata) che, salvo il divieto di reformatio in peius, il principio generale di cui all'art. 521 c.p.p. (potere del giudice di dare al fatto una definizione diversa da quella enunciata nella imputazione) vale anche nel giudizio di legittimità.
Tale facoltà di riqualificazione riguarda, oltre al fatto per come descritto nella imputazione, anche il fatto per come accertato nella sentenza impugnata, con la conseguenza che la correlazione tra l'imputazione e la decisione può ridursi alla sola identità dell'episodio storico dedotto nel processo, quando il giudice della impugnazione constati che, in base agli accertamenti compiuti nella sentenza impugnata, il medesimo episodio storico doveva essere diversamente rubricato.
Alla luce di tale principio, ritiene il Collegio che la ricostruzione effettuata dai giudici di merito porti a concludere, con riferimento al reato di cui al capo b) della imputazione, che non si tratti (in ipotesi) del delitto di cui all'art. 586 c.p. ma (semmai) di quello di omicidio colposo plurimo previsto dall'art. 589 c.p..
Invero, già la stessa Corte di appello aveva opportunamente rilevato, senza trame, però, le dovute conseguenze, che l'esito del processo era stato condizionato dalla peculiare decisione iniziale della pubblica accusa di addebitare a tutti gli imputati un reato omissivo di natura dolosa a fronte di condotte che avrebbero forse dovute essere perseguite come colpose e che tale impostazione aveva indotto il P.M. e le parti civili a porre l'accento su di un generico atteggiamento comune di inerzia degli imputati nella gestione dell'impianto di bonifica, senza individuare le singole condotte e gli specifici provvedimenti che ciascuno di essi avrebbe potuto adottare in relazione alla propria posizione di garanzia.
Sotto tale profilo, correttamente il P.M. impugnante censura la sentenza - anch'egli, però, senza trame le dovute conseguenze - laddove evidenzia che questa, nel valutare il comportamento degli imputati e la possibilità di pretendere dagli stessi un diverso comportamento, erroneamente non aveva dato rilievo a prove decisive, riguardanti tre casi di legionella, diagnosticati tra aprile e dicembre 1998: in quelle occasioni erano stati rilevati in laboratorio valori di Ufc (unità facenti cultura) di legionella di gran lunga superiori alle 10.000 unità (dato pacifico in cui è necessario intervenire). Nello stesso senso, correttamente, la parte ricorrente aveva censurato la sentenza impugnata nella parte in cui individuava il comportamento concretamente esigibile dagli imputati esclusivamente in quello rivolto a far funzionare la ed. "macchina rivoluzionaria" nella disinfezione, giustificando la mancata realizzazione dell'obiettivo con carenze tecniche e culturali, non addebitabili agli imputati. Lo stesso ricorrente, nell'affrontare il problema causale, osservava che un corretto giudizio controfattuale avrebbe consentito di rilevare che il buon funzionamento della macchina per il biossido di sodio, con l'azzeramento della legionella, avrebbe consentito di evitare o apprezzabilmente ritardare i tre decessi verificatisi nel marzo del 1999, indiscutibilmente a causa del predetto morbo.
Ciò che rileva, pertanto, nella fattispecie, al di là della qualificazione del fatto prospettata dal ricorrente, è la posizione di garanzia penalmente rilevante (ai fini e per gli effetti dell'addebito ex art. 40 c.p., comma 2), ricoperta dagli imputati, in funzione del potere giuridico esistente in capo agli stessi, sia pure sotto profili diversi, di tutelare la salute e la vita dei pazienti ricoverati nell'ospedale (OMISSIS) e di impedire gli eventi letali.
Sotto tale profilo non può essere contestato che il N., il G. ed il C., nella qualità di responsabili a vario titolo del servizio sanitario della Provincia, proprio in virtù della delega emessa dal primo in data 29.1.1998, erano garanti della vita e della incolumità dei pazienti dell'ospedale e, come tali, avevano l'obbligo giuridico di impedire l'evento.
Lo stesso obbligo, in virtù della carica ricoperta di direttore sanitario, è da individuarsi a carico del Mo..
In conclusione, ritiene il Collegio che l'ipotesi di accusa, come esplicitata nel capo di imputazione sub b), e come, per quanto sopra esposto, anche accennata nella sentenza di merito, sia correttamente da qualificare come quella di omicidio colposo plurimo (ex art. 589 c.p.).
La sentenza impugnata va dunque annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte di appello di Trento, la quale dovrà verificare la riconducibilità della fattispecie concreta alla fattispecie astratta individuata da questo Collegio.
PQM
annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo b) della rubrica e rinvia sul punto ad altra Sezione della Corte di appello di Trento: rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 marzo 2007.
Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2007