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Maltrattamenti sul posto di lavoro

Essere destinatari di una condanna alla reclusione senza che il proprio comportamento abbia integrato i presupposti oggettivi e soggettivi del reato, e per di più, magari, anche con l’esclusione dei benefici di legge, è una delle esperienze peggiori che possa fare nella vita di una persona.

Di seguito viene illustrato prima un caso pratico con dei nomi di fantasia, poi una particolare modalità di impugnazione.

Due anni di reclusione per maltrattamenti del dipendente


Mevia, dipendente di una tabaccheria sita in Alfa, da qualche tempo subiva angherie da parte dei titolari dell’attività Tizio e Caio.

Nello specifico Mevia, esausta dei maltrattamenti subiti da entrambi sporgeva denuncia presso il Commissariato di P.S. di Alfa nella quale descriveva gli abituali atti di scherno, disprezzo e vilipendio riguardanti il suo aspetto fisico e le competenze professionali, che subiva anche in presenza di clienti.

Tizio e Caio, quindi, venivano tratti a giudizio per il delitto di cui all’art. 572 c.p. e all’esito dell’istruttoria dibattimentale venivano condannati entrambi alla pena di anni due di reclusione, riconosciute le circostanze attenuanti generiche.

Al contempo, però, nonostante fossero incensurati non venivano riconosciuti loro i benefici di legge poiché, come emerso dal dibattimento, nei confronti di entrambi erano stati sporti due precedenti esposti da parte di un’altra dipendente e sulla base dei quali, pertanto, il giudice di prime cure formulava una prognosi negativa al ravvedimento di cui all’art. 164 c.p. nonostante non fosse emersa la pendenza di ulteriori procedimenti.


Difetto di parafamigliarità come motivo principale di impugnazione

Vediamo cosa si può fare.

Tale condanna in primo grado può essere affrontata in diversi modi, e con differenti motivi di impugnazione. Di seguito si illustra uno dei possibili schemi di impugnazione oggetto di elaborazione da parte dell'avvocato penalista.

Primo motivo di impugnazione della sentenza di primo grado: assoluzione perché il fatto non sussiste ex art. 530 cpp, per insussistenza del rapporto di parafamigliarità.

La sentenza impugnata deve essere riformata perché basata su argomentazioni contraddittorie rispetto alla risultanze probatorie, che suggeriscono, piuttosto, la piena assoluzione degli imputanti.

Nello specifico, il giudice di prime cure, non solo riteneva pienamente provati gli atti di scherno così come denunciati da Mevia ma, oltretutto, non rilevava la mancata presenza di alcuni elementi presupposti del reato ex art. 572 del codice penale.

Infatti, la fattispecie di maltrattamenti presuppone un intenso e continuativo rapporto tra la persona offesa ed il reo. Il rapporto presupposto, ovviamente, si può declinare in differenti modalità: di famiglia, convivenza, educazione, o ancora, in determinati casi, di lavoro.

Tuttavia, al fine della configurabilità del reato in questione, si deve accertare anche una relazione attuale e abituale idonea a provocare nella vittima, quantomeno, uno stato di svilimento causato dal comportamento (alias vessazione) posta in essere dal reo.

Dunque, l’intensa relazione a presupposto del reato qualifica una ben determinata cerchia di possibili soggetti passivi del reato, come ad esempio: famigliari, conviventi, maestro-alunno, medico-paziente, e da ultimo, solo in particolari casi, datore-lavoratore subordinato.

Quest’ultimo rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 572 cp soltanto quando venga accertato un rapporto parafamigliare, tra datore  elavoratore, equiparabile a quello esistente tra i componenti di una famiglia: a titolo di esempio non esaustivo si dovrebbe accertare, cosa non effettuata in sede istruttoria, elementi come spazi condivisi di modeste dimensioni, coordinamento continuo sul piano personale, e almeno una forte influenza psicologica.

Quanto, appunto, al rapporto di parafamiliarità, durante l’istruttoria dibattimentale non emerge alcun elemento emblematico della sussistenza di una relazione interpersonale stretta e continuativa, connotata da una consuetudine o comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare (come nel caso della collaborazione domestica svolta in ambito familiare) né comunque caratterizzata da un rapporto di soggezione e subordinazione del dipendente rispetto al titolare.

Secondo il costante orientamento della Suprema Corte, infatti: “con particolare riferimento ai rapporti di lavoro, occorre infatti che il soggetto agente versi in una posizione di supremazia, che si traduca nell'esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, del soggetto passivo, riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare, che, ad esempio, può ravvisarsi nei rapporti tra il collaboratore domestico e le persone della famiglia presso la quale il primo presta attività lavorativa o in quelli intercorrenti tra il maestro d'arte e l'apprendista”. (Cass. 26766/16)

Appare evidente, pertanto, che il fatto non sussista essendo del tutto carente l’elemento oggettivo richiesto dalla fattispecie contestata.

Ci sarebbe poi un secondo motivo di ricorso: eccessività della pena inflitta e concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena ex art. 163 c.p. nonché della non menzione nel casellario giudiziale ex art. 175 c.p., che si potrà approfondire in relazione alle circostanze specifiche del caso.

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