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L'email spam non è reato di molestia

L'email spam non è reato di molestiaUno dei temi più attuali è costituito del confronto tra strumenti telematici, come le email, ed i reati.

Non c’è dubbio che il progresso tecnologico e la nascita di un vero e proprio universo parallelo a quello fisico abbiano aperto la strada a scenari che le vecchie e impolverate norme non sono in grado neppure di immaginare.

Per tali ragioni, occorre evolversi con un’interpretazione estensiva ed evolutiva delle disposizioni normative esistenti, così da colmare eventuali vuoti legislativi che dovessero crearsi di fronte a situazioni di fatto che si verificano per le prime volte.

È ormai chiaro che le insidie legate all’uso di internet, alla comunicazione telematica, all’e-commerce e ai contratti conclusi on line siano moltissime; si è dovuta rivedere, ad esempio, la disciplina delle obbligazioni e dei rapporti contrattuali, al fine di adeguarla alle nuove modalità con cui si esplicano proposta e accettazione, così come anche a livello penale si è ampliata esponenzialmente la gamma dei reati consumati sugli schermi dei pc, primo tra tutti il delitto di diffamazione, il più semplice cui incorrere soprattutto attraverso i social network.

Tra le condotte virtuali che viaggiano sul confine tra la legalità e la commissione di un reato ve ne è una molto particolare: l’invio continuo di email, tra cui anche spam, ossia posta indesiderata.

Denuncia querela per email indesiderate

Per tale tipo di comportamento due ragazzi della provincia di Grosseto si sono visti processare e giudicare da un giudice, per aver asseritamente commesso il reato di molestie.

I due si erano infatti resi responsabili del continuo inoltro di messaggi di posta elettronica, in numero talmente elevato da diventare un vero e proprio assedio per i poveri destinatari, costretti nel corso della giornata a trascorrere il proprio tempo cancellando la posta indesiderata per non intasare la casella e avere la possibilità di continuare a ricevere messaggi da parte di mittenti “graditi”.

Chi di noi non ha presente la sensazione che si prova aprendo la propria mail per un controllo e trovando un numero superiore a cento di messaggi da dover cancellare senza neanche bisogno di aprirli, come spesso accade con quelli pubblicitari. Si tratta di una parte della giornata, di solito della durata di 10 minuti, in cui ci infastidiamo e stanchiamo.

È quanto devono aver pensato anche Eleonora e Leonardo, le “vittime” del tormento virtuale, i quali, esasperati dalla situazione, decidevano di presentare denuncia querela tramite il proprio avvocato penalista per veder puniti i responsabili di tale persecuzione, prospettando così ai magistrati un nuovo problema: come qualificare sotto il profilo giuridico tale condotta?

Accusa di molestia per invio massivo di email

Incardinare questo tipo di procedimento non deve esser stato semplice per il sostituto procuratore titolare delle indagini. È infatti a lui che spetta individuare l’alveo giuridico dei fatti che gli vengono sottoposti attraverso denunce ed esposti e non sempre il codice ci fornisce la risposta immediata; alle volte è necessaria una forzatura per ricondurre un fatto nel perimetro di una determinata norma.

Nel caso di specie, il pubblico ministero ha ritenuto sussistere il reato di cui all’art. 660 del codice penale, ravvisando gli elementi tipici della molestia.

Per poter ricondurre l’invio massiccio di email alla contravvenzione dell’art. 660 si è però resa necessaria un’interpretazione estensiva della norma, la quale, per ragioni storiche, non prevede la fattispecie di invio di posta elettronica, ma fa invece riferimento al disturbo mediante il mezzo del telefono.

È su questo punto che, ovviamente, la difesa e l’accusa hanno trovato terreno di scontro, in quanto l’avvocato difensore, diversamente dal procuratore, si era detto sin dal primo grado convinto dell’insussistenza di questo tipo di reato per le differenze evidenti tra il mezzo del telefono e quello della posta elettronica.

In sintesi, la tesi difensiva si è sin dal principio fondata sul difetto di tipicità della condotta in questione; ciò significa che, richiedendo la norma penale che il dato fattuale corrisponda esattamente alla fattispecie astratta descritta, non ci si può discostare dalla lettera della disposizione normativa e, di conseguenza, non può ravvisarsi il reato di molestie ogniqualvolta non vi sia petulanza attraverso l’utilizzo del telefono.

Sul punto si è quindi reso indispensabile l’intervento della Suprema Corte, dopo che in appello gli imputati erano stati condannati al pagamento di una ammenda pari a euro 300,00.

I giudici della Corte di Cassazione hanno seguito un iter logico e giuridico particolare, fondato essenzialmente sulla distinzione tra comunicazioni sincrone e asincrone, ossia tra comunicazioni alle quali è collegato un segnale sonoro e quelle che potremmo invece definire silenziose.

Sulla base di tale criterio discretivo, i giudici del Palazzaccio hanno ritenuto la sussistenza del reato contravvenzionale di molestie solo nell’ipotesi in cui ad ogni messaggio arrivato corrisponda un allarme o un suono di altra natura cui non ci si può sottrarre; esattamente come avviene nel caso in cui squilli il telefono o in quello in cui giunga un sms.

La differenza tra interazione telefonica e via corrispondenza

In caso di molestie recate con il mezzo della posta elettronica, non si pone alcuna interazione immediata tra il mittente e il destinatario, di tal che non vi è alcuna intrusione diretta del primo nella sfera privata del secondo.

Tuttavia, va evidenziato come la Corte, non del tutto ancorata soltanto ai secoli passati, ha anche evidenziato come il ragionamento seguito fosse correttamente applicato al caso di specie in ragione della circostanza che le comunicazioni via email venivano lette mediante computer fisso, dovendosi fare un diverso tipo di discorso per quei dispositivi mobili che danno la possibilità di avere un controllo costante della propria casella di posta, con relativo segnale acustico all’arrivo di un nuovo messaggio.

Nell’ipotesi del destinatario che per poter leggere le proprie email ha la necessità di accendere il computer e collegarsi alla casella di posta, non può dirsi configurato il reato di molestie, poiché opera lo stesso principio valido per la cara vecchia corrispondenza postale: deve esservi la volontà del destinatario di dedicarsi al controllo di quanto presente nella cassetta postale, reale o virtuale che sia.

Ne deriva che, senza la volontà di quest’ultimo, il mittente non ha la concreta possibilità di introdursi nella vita del destinatario, poiché questo, non aprendo la casella, potrebbe decidere di lasciarlo definitivamente nell’oblio.

L'Abuso dello strumento informatico

I fatti oggetto di commento rappresentano senz’altro uno spunto per alcune riflessioni sull’evoluzione legislativa o quantomeno interpretativa a livello giurisprudenziale.

Come detto, non sempre il nostro legislatore o il giudice è "al passo con i tempi"; a volte, anziché essere precursore dei cambiamenti della società, giunge successivamente a regolamentare situazioni di fatto già creatisi, di cui non è più possibile negare l’esistenza.

Altre volte, come in questo caso, non si segue né l’una né l’altra strada, lasciando semplicemente che siano i magistrati a collocare correttamente i fatti nel recinto delle norme già esistenti, benché non sempre sia un’operazione di facile esecuzione.

È proprio in questi casi che le lacune possono emergere con maggiore evidenza e che si sente di più il bisogno di un intervento riformatore dinamico che stia al passo con i rapidi cambiamenti cui siamo sottoposti.

L’abuso dello strumento informatico rappresenta una di quelle condotte di difficile collocazione, tant’è che, come nel caso di specie, un comportamento di inoltro massiccio di messaggi di posta elettronica non ha portato ad alcuna sanzione; ciò, proprio per l’assenza di una norma specifica.

Non sarebbe quindi il caso, nel ventunesimo secolo, di cominciare a prevedere una disciplina specifica per tali condotte?

Va segnalato che l’apertura totale delle frontiere che si verifica nel mondo virtuale, così come gli atteggiamenti e i comportamenti che si tengono on line, hanno ricevuto una pronta risposta normativa più sul piano civilistico che non in quello penale.

Sin da subito si è infatti sentita la necessità di regolamentare la conclusione dei contratti, basti pensare alla tutela del consumatore nell’e-commerce, ma, per ciò che concerne la normativa penale, si è fatta più fatica nell’adeguarsi ai tempi, limitandosi molto spesso a “riciclare” le disposizioni già esistenti per sanzionare le nuove condotte virtuali.

Come nel caso dei prelievi tramite frode dai conti correnti bancari o dalle carte di credito collegate ai profili Google Pay, frutto di attività malevole online tese alla captazione delle credenziali di accesso ai propri account.

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