L'alto rischio in un intervento cardiaco con infezione
La vicenda del signor GIOVANNI si inserisce in un quadro più ampio, quello delle complicanze post-operatorie in ambito cardiochirurgico, un settore della medicina dove i margini d’errore sono minimi e la vulnerabilità dei pazienti è elevatissima. Ogni anno migliaia di famiglie affrontano il delicato percorso di un intervento al cuore, spesso accompagnato da speranze, timori e tante domande.
Non sempre, purtroppo, l’esito è quello atteso, e quando sopraggiungono eventi avversi, la sofferenza emotiva si accompagna al bisogno di capire cosa sia realmente accaduto.
Giovanni S. viveva con la moglie e i due figli, in un clima sereno come tante altre famiglie. Alti e bassi, periodi bui ed altri più allegri, ma sempre cercando di approfittare al meglio delle cose buone che la vita gli riservava. Una buona abitudine, questa, resa migliore dal fatto che la serenità era quasi un obbligo per GIOVANNI che soffriva di cuore e doveva tenersi alla larga da tutte quelle situazioni che potevano generare in lui angoscia e tensione emotiva.
L’operazione al cuore è l’unica chance di salvare la vita all’uomo
In realtà, affermare che il signor GIOVANNI semplicemente soffrisse di cuore suona come un eufemismo. Egli era affetto da una patologia cardiaca particolare, chiamata aneurisma sacciforme dell’aorta ascendente e presentava anche una grave stenosi coronarica. A tutto questo, si aggiungeva un quadro clinico per niente tranquillizzante. Il Paziente era infatti iperteso e diabetico e, come se non bastasse, aveva fumato moltissimo per parecchi anni.
Poco prima di Natale, nel 2012, i medici lo convocano per un intervento al cuore programmato da tempo, necessario per consentirgli una vita il più possibile normale. Bisogna intervenire chirurgicamente a cuore aperto per inserire una protesi nelle aorte, reimpiantare alcuni vasi sanguigni e rivascolarizzare le coronarie.
Niente da dire, l’operazione è rischiosa e il tasso di mortalità è elevato. Le complicanze possono essere numerose: il cuore potrebbe non riuscire a riprendere da solo il normale ritmo cardiaco, il cervello potrebbe subire danni per il mancato afflusso di sangue, potrebbero rilasciarsi trombi dalle arterie interessate.
Immediatamente dopo l’intervento, il paziente viene infatti colpito da ischemia cerebrale. Per fortuna, questa prevedibile complicanza neurologica, viene tempestivamente trattata con farmaci e fisioterapia e il paziente sembra riprendere la via della convalescenza.
Tuttavia, insorge un’altra situazione, questa volta non prevista dai medici. Esattamente dove è stata posizionata la protesi all’aorta toracica, vicino all’esofago, si genera una fistola che provoca dolori fortissimi al dorso e uno stato di prostrazione fisica che non fa ben sperare. La febbre aumenta e non reagisce alla somministrazione di antibiotici.
I medici sospettano che la situazione sia da addebitare ad una infezione.
Le fistole aorto-esofagee o aorto-bronchiali sono evenienze rare ma estremamente gravi. Possono derivare da microlesioni generate dalla pressione della protesi o da processi infettivi che indeboliscono le pareti dei tessuti vicini.
Quando compaiono, i sintomi sono spesso subdoli e aspecifici: dolore dorsale profondo, febbre persistente, calo dell’appetito, marcata spossatezza.
La diagnosi non è semplice e richiede un alto livello di sospetto clinico unito a esami radiologici dedicati. Anche intervenire tempestivamente, purtroppo, non garantisce la sopravvivenza nei pazienti già critici, perché la fistola rappresenta una condizione anatomica estremamente compromessa.
Un lungo e travagliato viaggio tra reparti
L’infezione generatasi dalla fistola non regredisce con la terapia antibiotica e purtroppo procedere con una nuova operazione avrebbe significato un altissimo rischio di morte, considerando la debilitazione di GIOVANNI che, oltretutto, è più esposto di altri pazienti anche alla possibilità di contrarre altre infezioni ospedaliere.
Nello stesso Ospedale altri casi di infezioni letali
Per la famiglia di GIOVANNI sono ore di forte ansia perché temono che il loro congiunto non abbia prognosi favorevole ed infatti, a distanza di quattro mesi dall’intervento, GIOVANNI muore per complicanze post-operatorie.
Tuttavia, sapendo che la morte è avvenuta a causa di una infezione, si fa strada nei familiari il sospetto che possa dipendere dalla scarsa igienizzazione dell’ambiente ospedaliero.
Solo qualche tempo prima, nello stesso ospedale, due pazienti erano morti per una infezione da micobatterio chimera contratta dopo aver usufruito dello stesso macchinario cui era stato collegato GIOVANNI
Annidato negli strumenti che si usano nelle sale operatorie, il batterio ha già provocato altri decessi tra i pazienti di altri ospedali che hanno subito interventi di cardiochirurgia a cuore aperto, provocando danni a livello respiratorio o a carico di altri organi, può provocare una patologia di per sé piuttosto impegnativa.
In tutto questo percorso, la famiglia di GIOVANNI ha vissuto mesi di incertezza, oscillando tra la speranza di una ripresa e la paura crescente che qualcosa non stesse andando per il verso giusto.
Ogni giorno trascorso in ospedale era un’altalena emotiva fatta di attese lunghissime, informazioni difficili da comprendere e la sensazione costante di essere impotenti di fronte alla sofferenza del proprio caro.
L’umanità di queste emozioni spesso resta invisibile nella narrazione dei casi clinici, ma rappresenta una parte fondamentale della realtà quotidiana di chi affronta un ricovero complesso.
L’Avvocato spiega come dimostrare la colpa
A supportare la loro volontà di fare luce sulla causa del decesso di GIOVANNI, l’avvocato di famiglia che ha ascoltato i loro dubbi e ha deciso di affiancare la sua esperienza a quella di un perito che sia in grado di confermare o smentire la tesi della negligenza.
In dubbio tra difficoltà dell’intervento e gestione postoperatoria
Non è mai semplice accertare senza margine di dubbio che la morte di un paziente avvenuta tra le mura dell’ospedale sia da addebitare alla struttura sanitaria. Soprattutto quando il paziente è transitato per più di un reparto e si presenta in condizioni già critiche. Nel caso dell’infezione, è sempre possibile che questa si sviluppi nell’ambito delle tipiche complicanze post-operatorie e solo in alcuni casi, e per alcune tipologie di batteri, si può mettere in relazione ad una responsabilità.
In questo caso, vista la particolare patologia del paziente e la difficoltà dell’intervento, la cui riuscita tecnica non è mai stata negata, riuscire ad ottenere la prova della responsabilità è veramente complicato. Basterebbe un minimo ristoro anche solo morale, per riuscire a lenire almeno un po’ il dolore di una giovane vedova e dei suoi figlioli.
Oltretutto, i medici sembrano piuttosto sicuri nello smentire categoricamente la presenza del micobatterio chimera sul signor GIOVANNI e circoscrivere l’infezione al sito della protesi aortica riconducendola al batterio streptococco, che alberga comunemente nel nostro cavo orale e non può essere classificato un patogeno nosocomiale.
Anche se la morte non si poteva impedire, non era necessaria tanta sofferenza
L’insorgenza di una fistola nel luogo di impianto di una protesi cardiaca è una eventualità sciagurata ma possibile, la cui prognosi può rivelarsi infausta nei pazienti più critici, indipendentemente dal trattamento antibiotico praticato. Perciò, a carico dei sanitari che hanno gestito la vicenda clinica di GIOVANNI non possono ravvisarsi responsabilità.
È questa la conclusione cui sono pervenuti, uniformemente, sia i periti che l’autorità giudiziaria sulla scorta della inutilità, ai fini della sopravvivenza, di un diverso trattamento farmacologico o chirurgico, escludendo così qualsiasi nesso di causalità tra le condotte dei medici e la morte del paziente.
Ai familiari non resterebbe che arrendersi di fronte all’evidenza, poiché sia il Giudice per le indagini preliminari che il Tribunale hanno dichiarato che la morte di GIOVANNI non si sarebbe comunque potuta impedire, vista la situazione di estrema gravità in cui versava, e il subdolo silenzio in cui l’infezione ha agito, manifestandosi solo una settimana prima del decesso, quando ormai l’organismo era compromesso.
Però, il racconto di questa sofferenza deve essere stato così duro da aver fatto leva persino su chi ha sancito l’esito del giudizio, che sebbene contrario a quanto speravano i familiari di GIOVANNI, ha dimostrato comunque che la perdita di un congiunto durante il ricovero in ospedale non è una esperienza da trascurare completamente.
Nonostante la domanda dei familiari di GIOVANNI sia stata disattesa, e fosse ragionevole quindi aspettarsi la condanna al pagamento delle spese processuali, il Giudice ha deciso di compensare integralmente le spese di lite proprio per non penalizzare oltre una famiglia che ha comunque visto perdere, in un contesto di grande sofferenza, un suo componente ancora in giovane età.
Lo streptococco anche fuori dagli ospedali
Non che lo streptococco non sia capace di causare infezioni nosocomiali, ovvero quelle infezioni che non si riscontrano all’ingresso in ospedale ma si manifestano dopo il loro periodo di incubazione quando il paziente è ricoverato, ma sicuramente è uno di quelli che si trovano più facilmente anche fuori dall’ambiente ospedaliero.
Per questo è classificato come “batterio commensale”, ovvero un batterio che si riscontra normalmente nella flora della popolazione sana e che anzi ha la funzione di proteggere dall’attacco di batteri patogeni prevenendone la colonizzazione.
Se però l’ospite è particolarmente debilitato, allora anche i batteri commensali sono in grado di provocare infezione e se questa si sprigiona durante il ricovero, inevitabilmente verrà classificata infezione nosocomiale anche se il batterio albergava nell’organismo da tempo.