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No al risarcimento per Comportamento abnorme del lavoratore

MANOLO è un ragazzo che vive nella provincia lombarda, insieme alla famiglia. È molto legato ai suoi genitori e quando può, oltre che a casa, ha piacere di trascorrere del tempo libero insieme a loro in attività che piacciono a tutti: camminate, acquisti, sport.

In particolare, MANOLO è legato al padre, e quando è di ritorno a casa spesso si ferma a trovarlo nel posto dove il padre lavora, che di volta in volta può cambiare perché è muratore e lavora nei cantieri edili.

Resta giusto il tempo di fare un saluto, magari scambia quattro chiacchiere con i colleghi del padre, che lo conoscono fin da quando era un ragazzino e lo apprezzano per la sua grande simpatia e generosità.

A volte capita che si trattenga qualche minuto in più, quando fa una tappa al bar per prendere i caffè per il padre e i suoi colleghi e li porta al cantiere per condividere un momento di pausa.

Quel giorno, decide di passare a salutare il padre che si trova, insieme ad altri muratori, nel Consorzio della città.

Il rischio tipico delle vasche di raccolta e le procedure di sicurezza: L’incidente durante la pulizia di una vasca di accumulo

Mentre MANOLO si intrattiene con il padre per il consueto saluto, una ditta esterna incaricata dal Consorzio sta effettuando i lavori di pulizia di una vasca di accumulo di reflui idrici.

Le vasche di accumulo di reflui rappresentano uno degli ambienti di lavoro più pericolosi, in cui la presenza di gas tossici può risultare letalmente imprevedibile. Per questo, le procedure di sicurezza prevedono che nessun operatore possa avvicinarsi o introdursi nella vasca senza avere indossato preventivamente autorespiratori certificati, imbracature e dispositivi anticaduta, oltre alla presenza obbligatoria di personale addetto alla vigilanza esterna. Una sola omissione in tali fasi può trasformare un intervento di routine in un evento drammatico. Quel giorno, tuttavia, la concatenazione di distrazioni e sottovalutazioni del rischio ha reso il contesto estremamente vulnerabile.

Uno dei dipendenti della ditta di pulizie speciali, si cala un po’ troppo a fondo della vasca che si stava svuotando senza curarsi di indossare i mezzi di protezione individuale. Le esalazioni nocive sviluppate dai fanghi di risulta lo aggrediscono violentemente e gli fanno perdere i sensi.

Le persone che si trovano nel Consorzio vengono richiamate dalle grida dei colleghi dell’uomo e accorrono subito. Alcune di esse si calano nella vasca ma, essendo anch’esse sprovviste dei mezzi di protezione, si trovano costrette a respirare le esalazioni.

Tra queste, anche MANOLO che non ha esitato un attimo a correre per prestare soccorso allo sventurato finito svenuto in fondo alla vasca. Anche lui perde i sensi, ma la situazione sembra ancora più grave degli altri.

Viene portato in ospedale senza ritardo, ma la diagnosi è terribile: una broncopolmonite chimica gli ha causato una gravissima insufficienza respiratoria e un irreversibile danno encefalico. Di lì a pochi giorni, muore.

Il ragazzo muore per cercare di salvare la vita all’operaio infortunato

Il comportamento di M. è stato interpretato da tutti come un gesto istintivo e profondamente altruista: non ha esitato un solo istante nel tentare di salvare un uomo in evidente difficoltà, anche se non aveva alcun obbligo professionale o giuridico a farlo. La sua azione riflette una generosità genuina, la stessa che lo aveva sempre contraddistinto nei rapporti familiari e personali.

Ma proprio questa impulsività, dettata dal cuore più che dalla ragione, lo ha esposto in modo diretto e fatale alle esalazioni chimiche che già stavano colpendo gli altri soccorritori.

Prima di morire, il ragazzo ha dovuto affrontare un’agonia indescrivibile. La broncopolmonite causata da esalazioni chimiche ha impedito il passaggio di ossigeno al cervello per un lungo tempo, cagionando un danno alle funzioni cerebrali irreversibile.

Quindi, i genitori dapprima hanno dovuto fare i conti con un cambiamento drastico, ovvero il trauma di avere un figlio perfettamente normale che si trova ad essere totalmente incapace di intendere e volere, forse anche di parlare, di vedere, con tutto quello che ne consegue.

Ma era pur sempre una chance di averlo ancora tra loro.

Invece, la gravità delle condizioni non gli ha lasciato scampo e dopo il dolore dell’infortunio, devono affrontare anche quello della morte.

A questo si aggiunge il terribile senso di colpa del padre, che rimpiange di essersi trovato nel Consorzio in quel momento e di non essere riuscito ad impedire al figlio di lanciarsi in soccorso dell’infortunato.

Il datore di lavoro non può pagare per l’atto imprevedibile del terzo

Ovviamente si è aperta la fase giudiziaria per accertare di chi fosse la responsabilità dell’infortunio e decretare i soggetti tenuti a corrispondere il risarcimento per la morte del giovane MANOLO

Tuttavia, i giudici di primo e secondo grado, hanno ritenuto che la condotta di MANOLO fosse stata talmente imprudente, essendosi calato nella vasca per prestare aiuto pur sapendo di non essere in grado di sopportare le esalazioni, da essere eccezionale e imprevedibile e dunque impossibile da ricondurre ad una responsabilità del datore di lavoro della ditta di pulizie.

Uno dei nodi centrali del contenzioso riguarda proprio il concetto di prevedibilità del comportamento del terzo che interviene nel luogo di lavoro.

La giurisprudenza, infatti, tende a distinguere nettamente tra condotte colpose che rientrano nel rischio tipico dell’attività e condotte che risultano talmente imprevedibili da spezzare il nesso causale.

Nel caso in esame, i giudici di merito hanno ritenuto che la decisione di M. di calarsi nella vasca — pur comprendendo il pericolo e senza alcuna competenza specifica — rientrasse in quest’ultima categoria. Da qui la complessità del giudizio, poiché si tratta di valutare se tale scelta fosse davvero così eccezionale da escludere ogni responsabilità datoriale.

Necessaria la tutela legale di fronte alle imputazioni

La questione è delicata e richiede tutta la perizia degli avvocati per riuscire a stabilire la responsabilità. In particolare, tutto ruota intorno al fatto che la colpa dell’accaduto, e quindi la risarcibilità del danno, possa essere attribuita al datore di lavoro o al suo dipendente che imprudentemente si era calato per primo nella vasca senza indossare le protezioni, scatenando così l’impulso dei presenti di correre in suo aiuto.

Per due volte innanzi alla Corte di Appello

Una sfida quanto mai ardua. Gli avvocati si danno battaglia in ogni grado di giudizio fino ad approdare in Cassazione. Addirittura, la Suprema Corte decreta l’annullamento della sentenza emessa dalla Corte di Appello facendo tornare tutto di nuovo al secondo grado di giudizio, al termine del quale, la sentenza viene nuovamente impugnata e si torna in Cassazione. Infatti, non si accetta il fatto che il datore di lavoro possa essere dichiarato innocente, assolvendolo da ogni fatto.

Il processo si è quindi trasformato in un terreno di confronto tra due principi cardine del diritto del lavoro: da un lato la massima tutela dell’incolumità dei lavoratori e dei terzi presenti nel luogo di lavoro; dall’altro il divieto di estendere in modo irragionevole la responsabilità penale del datore al di là dei limiti della colpa effettiva.

La Corte di Appello, nei due giudizi, si è trovata più volte a bilanciare queste esigenze, cercando di comprendere se le misure adottate dal datore fossero realmente adeguate e se la catena causale potesse comunque essere a lui ricondotta.

Tutti i dispositivi di protezione erano funzionanti ed efficienti

In sede giudiziale, viene accertato che il datore di lavoro aveva fornito ai dipendenti tutti idispositivi di protezione necessari ed aveva collaborato con il Consorzio perché le misure di prevenzione e protezione dai rischi del lavoro fossero attuate.

Non solo, ma per essere sicuro oltre ogni dubbio, aveva impartito ai suoi dipendenti una specie di lezione dal vivo, eseguendo da solo e per primo le operazioni di pulizia e mostrando così quello che andava fatto e quello che doveva essere evitato.

Nei precedenti gradi di giudizio, tuttavia, al datore di lavoro era stato rimproverato invece di non avere informato il dipendente dei rischi che comportava l'esecuzione dei lavori affidatigli e di non avergli tassativamente vietato di entrare nella vasca senza portare con sé un autorespiratore. Quindi, se il dipendente non fosse sceso nella vasca senza un idoneo mezzo di protezione, nulla sarebbe successo.

Eppure, la Cassazione già aveva rilevato che non vi era prova di una mancata adeguata informazione e formazione del personale, nonché delle congruità delle direttive impartite al personale e della mancata fornitura ai lavoratori di strumenti di protezione e maschere munite di filtro universale contro le aggressioni di sostanza chimica. Quindi, non ha ritenuto di dover contraddire la sentenza di secondo grado emessa all’esito del giudizio di rinvio, nella quale era stato respinto ogni addebito a carico del datore di lavoro.

Ha rigettato le argomentazioni che pretendevano di attribuire la responsabilità al datore di lavoro sulla scorta della testimonianza dell'autista dell'automezzo operativo, il quale aveva detto che non gli erano state impartite le istruzioni. Egli infatti, non aveva tra i suoi compiti quello di calarsi nelle vasche e dunque non era tenuto a dover utilizzare un dispositivo idoneo a segnalare la presenza di gas nocivi.

La Cassazione ha osservato come la condotta colposa del lavoratore infortunato esonera da responsabilità il datore quando presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute e che a tal fine, può essere considerato imprudente e abnorme ogni comportamento lontano dalle ipotizzabili e prevedibili scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro.

 

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