Risarcimento trust del cemento
A partire dal giugno 2011 e per tutto il mese di gennaio 2016, molte società che a vario titolo si sono trovate ad acquistare partite di cemento, hanno subito danni derivanti dalla maggiorazione dei prezzi delle merci.
Pensiamo a tutte le industrie che riutilizzano il cemento per la creazione di lavorati del settore edile e che acquistano mediamente tonnellate e tonnellate all’anno di materie.
Le più grandi cementerie italiane, molte delle quali multinazionali, hanno istituito una intesa finalizzata all’aumento dei prezzi del cemento e al controllo delle quote di mercato, con il risultato di eliminare le normali dinamiche concorrenziali nel mercato del cemento.
Le società che acquistavano il cemento, erano ignare del fatto che alle loro spalle le cementerie si mettevano d’accordo per aumentare il prezzo dei listini e inviavano alla generalità delle clientele, le comunicazioni relative all’applicazione futura di identici aumenti.
Non solo, ma si mettevano d’accordo anche per monitorare l’effettiva attuazione di detta pratica commerciale e l’effettiva stabilità delle relative quote di mercato, aiutandosi con un sistematico scambio di informazioni sensibili ottenute grazie alla loro associazione di categoria.
Tale condotta ha avuto ovvie ripercussioni negative sui consumatori ma soprattutto sulle società acquirenti, alle quali veniva applicato un sovrapprezzo di 9 euro a tonnellata, fino a quando una impresa di calcestruzzo ha presentato una denuncia all’Autorità dalla quale è emerso che il 15 giugno si era verificato un aumento dei listini simultaneamente su tutto il territorio nazionale.
La portata estesa della vicenda ha richiamato l’attenzione di molti soggetti che hanno intrattenuto rapporti commerciali con le cementerie. Mediamente gli acquirenti diretti delle cementerie, ovvero coloro che facendo un largo uso di questa materia come ad esempio i grandi cantieri edili o stradali, hanno subito un danno pari al 20% del prezzo corrisposto, tanto era l’aumento praticato dalle imprese anticoncorrenziali.
Prova dell’intesa tra produttori di cemento
La pronuncia dell’Antitrust consente di chiedere il risarcimento senza dover fornire la prova dell’intesa, facilitando sul punto il lavoro dell'Avvocato.
Per chi acquista svariate tonnellate di cemento, il danno può risultare consistente e dunque la tutela legale è divisa in due differenti soluzioni.
Innanzitutto, si parte dal presupposto che la normativa europea in tema di violazione delle pratiche anticoncorrenziali istituisce la possibilità di riconoscimento automatico della intesa illecita nei giudizi civili di risarcimento, sollevando la società ricorrente dall’onere di provare che vi è stata violazione delle pratiche concorrenziali.
In secondo luogo, tale circostanza di favore può essere fatta valere sia in un giudizio ordinario davanti al giudice civile, promosso individualmente dalla società che affermi di avere subito una perdita economica nell’acquisto del cemento presso una o più delle cementerie sanzionate, sia in una delle tante class action coltivate da Avvocati.
Rivolte non solo ai consumatori finali che in questo modo ammortizzano i costi della difesa legale a fronte di un risarcimento generalmente molto basso, le azioni collettive portate avanti dalle associazioni di categoria accreditate e da studi legali specializzati sono esperibili anche da chi abbia subito un danno più consistente, purché siano allegate le prove della perdita economica.
Delle volte tuttavia, le domande di ristoro fatte pervenire con lo strumento della azione collettiva si infrangono nella fase preliminare della ammissibilità perché richiedono specifici requisiti di forma e processuali che il più delle volte scoraggiano a prendere l’iniziativa.
Fortunatamente, il legislatore ha consentito mediante la riforma del 2019 sul Codice di Procedura Civile, di poter subentrare nel novero dei ricorrenti anche successivamente alla delibazione preliminare di ammissibilità della domanda, ampliando la fruibilità di uno strumento finora poco valorizzato.
Quanto alla forma della domanda, consiste in un ricorso da presentarsi davanti alla Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale del luogo ove ha sede la parte resistente, che introduce un procedimento sommario di cognizione ex artt. 702-bis e ss. cpc
Il Tribunale, con ordinanza reclamabile innanzi alla Corte d’Appello, decide sulla domanda entro 30 giorni dalla prima udienza, pronunciandosi sulla ammissibilità della stessa.
Per non incorrere nel vizio di inammissibilità, la domanda ha un contenuto minimo da rispettare, che prevede una certa fondatezza della pretesa risarcitoria, l’assenza di conflitto di interessi con la società resistente, l’interesse a curare i diritti individuali fatti valere in giudizio.
Accanto a questi requisiti, la domanda dovrà contenere anche tutti i dati utili a identificare e contattare il ricorrente e il resistente, l’azione di classe alla quale si intende aderire, l’oggetto della domanda e l’esposizione dei fatti su cui si basa.
Ad essa vanno altresì allegati i documenti di supporto probatorio, ed ulteriori attestazioni quali la veridicità della domanda, la procura al rappresentante degli aderenti, i dai per l’accredito delle somme e il versamento del fondo spese.
Pur in assenza di una casistica specifica in merito ai risarcimenti nei confronti delle cementerie, le class action in Italia non godono di molta fortuna poiché oltre la metà viene dichiarata inammissibile dai Tribunali.
Sarà dunque indispensabile accertarsi prima di proseguire nella difesa, che la domanda sia quantomeno fondata e proposta da chi è effettivamente legittimato a chiedere il risarcimento dei danni.
Azioni collettive di classe in Italia
L’Antitrust ha aperto la strada alle azioni collettive
La risonanza data alla possibilità di agire collettivamente contro le cementerie, è data dal fatto che l’Antitrust nel 2017 ha emesso un provvedimento di condanna irrogando maximulte nei confronti delle cementerie sottoposte a istruttoria, arrivando a irrogare complessivamente 184 milioni di euro di sanzioni.
La decisione è stata presa dopo aver ritenuto sussistente la intesa anticoncorrenziale secondo tesi confermate in primo grado dal TAR Lazio e in secondo e ultimo grado dal Consiglio di Stato.
Aumento simultaneo dei prezzi e controllo del mercato
L’aumento simultaneo dei prezzi e il controllo concertato del mercato tradiscono l’intesa illecita.
Sia nel provvedimento dell’Antitrust, sia nelle sentenze dei giudici amministrativi, si trovano argomentazioni condivise per quanto riguarda l’accertamento dell’accordo illecito.
Secondo la ricostruzione operata in sede giurisdizionale, L’aumento concertato dei prezzi, la partenza simultanea delle comunicazioni alla clientela, la vigilanza sulla effettiva applicazione dei listini incrementati, il monitoraggio della stabilità degli effetti nocivi sul mercato, sono gli elementi salienti della condotta anticoncorrenziale delle cementerie.
A corredo di tale condotta, le autorità hanno individuato un ulteriore attore esterno ma non estraneo alle cementerie.
Si tratta della associazione di categoria che per anni ha cooperato per verificare l’adozione e l’applicazione degli incrementi di prezzo generalizzati decisi dalle imprese aderenti.
Essa, secondo la ricostruzione dell’Antitrust, si adoperava attivamente per diffondere periodiche elaborazioni statistiche relative alle quote di mercato del cemento, sia affidandosi ai dati di fonte ministeriale che effettuando autonome rilevazioni, onde consentire alle cementiere di monitorare costantemente le quote di mercato e verificare il rispetto della concertazione sui prezzi da parte di tutte le aderenti alla intesa.
Nelle decisioni amministrative, si legge che l’Associazione metteva a disposizione delle cementerie la propria sede per organizzare riunioni degli esponenti durante le quali venivano discusse le modalità di intesa.
Questa intesa aveva carattere di continuità ed era unica e complessa.
Durante il periodo in esame, la situazione economica del mercato del cemento era critica, ma le cementerie sono riuscite ad arginare il trend discendente dei prezzi e a conservare una elevata stabilità delle reciproche quote di mercato.
L’Autorità ha accertato altresì che il parallelismo consisteva anche nell’invio massivo di comunicazioni alla clientela nelle quali veniva data notizia dell’ammontare e della successiva decorrenza dell’incremento del prezzo, e che non poteva essere accolta la tesi difensiva secondo cui si trattava di una strategia imitativa da parte dei diversi concorrenti e di autonome decisioni di incremento dei prezzi.
La condotta così complessivamente delineata, secondo l’Antitrust costituisce un’intesa restrittiva della concorrenza vietata dall’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea – TFUE. A margine della pronuncia, l’autorità garante della concorrenza ha imposto l’astensione per il futuro dal porre in essere comportamenti analoghi applicando loro le sanzioni pecuniarie previste per tali infrazioni.
Il provvedimento, nella sua ultima istanza, è stato riesaminato dal Consiglio di Stato che ha confermato le argomentazioni dell’Antitrust, ritenendo sussistente il comportamento economicamente inescusabile.