Giurisprudenza Arbitrale sul Rimborso di Prelievi Contestati
In questo breve articolo raccogliamo i provvedimenti arbitrali interessanti da un punto di vista casistico in relazione agli addebiti (e rimborsi) su conti correnti o carte di credito/prepagate non autorizzati, o comunque disconosciuti successivamente, anche con l'utilizzo di token e otp e home banking.
IL COLLEGIO DI ROMA
Decisione N. 2264 del 28 giugno 2012
nella seduta del 13/04/2012 dopo aver esaminato
_ il ricorso e la documentazione allegata;
_ la relazione istruttoria della Segreteria tecnica,
_ le controdeduzioni dell'intermediario e la relativa documentazione;
Fatto
Controllando il proprio estratto conto la parte ricorrente rilevava la sera del 13
luglio 2011 una disposizione di bonifico internazionale dell’importo di 5.638,00 euro,
eseguita a sua insaputa alle ore 7.01 del mattino a favore di un beneficiario
sconosciuto. Il giorno successivo denunciava l’accaduto alle forze dell’ordine,
precisando di non aver mai ricevuto mail di phishing e di avvalersi per l’esecuzione
delle transazioni on-line del particolare dispositivo generatore di password fornitole
dall’intermediario; specificava inoltre che, per un bonifico nazionale di 6.541,00 euro
regolarmente disposto alcuni giorni prima, l’intermediario le aveva chiesto
telefonicamente un’apposita conferma.
La ricorrente provvedeva altresì a far verificare la propria postazione elettronica da
un tecnico informatico il quale registrava problemi nel browser Microsoft Internet
Explorer, dovuti ad un software malevolo, e la presenza di uno Spyware avente la
funzione di raccogliere ed inviare a soggetti terzi le credenziali di accesso
dell’utente. Concludeva, l’esperto, che tutte le credenziali della ricorrente potessero
essere state “esposte, non per sua colpa o dolo, a terzi”.
Non avendo ottenuto risposta dall’intermediario in merito al reintegro della somma
fraudolentemente prelevata, la ricorrente si è rivolta a questo Collegio per il
riconoscimento delle proprie ragioni.
Nelle proprie controdeduzioni l’intermediario resistente, in conformità con una
posizione dallo stesso espressa in precedenti analoghi ricorsi che lo hanno
interessato, ha confermato il proprio diniego argomentando che: 1) la domanda di
rimborso deve essere rivolta all’indebito percettore; 2) Il comportamento della
ricorrente è risultato gravemente negligente, 3) non può essere addossata alcuna
responsabilità all’intermediario che ha eseguito una transazione “correttamente”
disposta; 4) i propri sistemi informatici centrali risultano a tutt’oggi inviolati ed
“assolutamente sicuri” a differenza dell’apparato informatico del cliente risultato, a
suo dire, insicuro e non adeguatamente protetto; 5) tenuto conto dell’art. 1218 C.C.,
eventuali pretese risarcitorie nei confronti dell’intermediario sono ammissibili solo a
fronte di un suo inadempimento, inadempimento che il ricorrente non ha contestato
all’intermediario.
Nella fattispecie concreta il convenuto aggiunge che la transazione contestata è
avvenuta “mediante il corretto inserimento di tutte le successive serie di
riconoscimenti informatici indispensabili per l’esecuzione di tale operazione
(bonifico estero)”, ivi compresi: “l’utilizzo del primo codice univoco proposto da(l)
sistema” … che deve essere digitato sull’apposito strumento generatore di
password fornito dall’intermediario; il “corretto utilizzo” di tale strumento mediante
inserimento della carta personale del cliente e del PIN collegato alla carta
medesima, noto soltanto al cliente; la digitazione sul web dell’intermediario,
appositamente dedicato, del codice generato dal dispositivo: strumento, questo, che
“non (sarebbe) in alcun modo raggiungibile via web”. L’intermediario imputa in
particolare alla ricorrente di non aver adottato le misure necessarie al fine di
garantire la sicurezza informatica minimale necessaria ad una diligente attività
finanziaria on-line, la negligenza del cliente essendo attestata dalla perizia versata
in atti dalla ricorrente medesima; inoltre, stigmatizzando il fatto che la ricorrente non
ha fornito notizie in ordine allo stato di aggiornamento del suo p.c. prima
dell’operazione disconosciuta e prima dell’intervento della ditta informatica, ipotizza
che i virus siano stati “inoculati durante una precedente navigazione nel web
effettuata in modo non protetto o con protezione scarsa, inefficiente o non
aggiornata”.
Diritto
Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati.
La vicenda si inquadra nella casistica del furto di identità elettronica e pertanto, come già
più volte osservato da questo Collegio nell’esame di analoghi ricorsi, deve essere valutata
alla luce delle vigenti disposizioni normative in materia di servizi di pagamento, con
particolare riguardo all’art. 10, comma 2 del d.lgs. n.11 del 27 gennaio 2010 che ha
recepito la direttiva 2007/64/CE del 13 novembre 2007 e sancisce espressamente che
“l'utilizzo di uno strumento di pagamento registrato dal prestatore di servizi di pagamento
non è di per sé necessariamente sufficiente a dimostrare che l'operazione sia stata
autorizzata dal titolare, né che questi abbia agito in modo fraudolento o non abbia
adempiuto, con dolo o colpa grave ad uno degli obblighi di cui all’art. 7”: in altri termini, che
non abbia adottato “tutte le ragionevoli misure per proteggerne le caratteristiche di
sicurezza personalizzate”.
A rafforzamento di tale principio, la vigente disciplina stabilisce che fino al momento della
notificazione, il titolare sostiene la perdita subita in conseguenza dello smarrimento o del
furto dello strumento di pagamento elettronico nei limiti di un massimale non superiore ai
150 euro, fatta eccezione del caso in cui il titolare “abbia agito con dolo o colpa grave
ovvero non abbia adottato le misure idonee a garantire la sicurezza dei dispositivi
personalizzati che consentono l’utilizzo dello strumento di pagamento” (cfr. art. 12, comma
3 del d.lgs. n.11/2010).
Conseguentemente, questo Collegio non può che riaffermare i principi dettati dal citato
decreto legislativo e della direttiva comunitaria sottolineando che, in base ai criteri che
regolano la responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.), l’onere di dimostrare la colpa grave
o il comportamento fraudolento del cliente spetta all'intermediario, atteso che la spendita
non autorizzata di uno strumento non assume il valore di una prova della negligenza del
titolare.
Tutto ciò premesso, risulta essenziale per la risoluzione del contenzioso la verifica del
comportamento delle due parti, essendo entrambe tenute a specifici obblighi: la custodia e
la segretezza delle credenziali informatiche, per quanto riguarda il cliente; l’affidabilità e la
sicurezza complessiva del servizio di pagamento offerto al cliente, per quanto riguarda
l’intermediario; sicurezza, questa, che attiene sia al sistema informatico –centrale e
periferico- sia al sistema organizzativo e di controllo.
Nel caso qui sottoposto alle valutazioni di questo Collegio l’addebito di grave negligenza
addossato dall’intermediario al cliente sembra essere fondato sia sui particolari requisiti di
affidabilità presentati dal generatore di password messo a disposizione del cliente, sia
sulla perizia informatica disposta da quest’ultimo immediatamente dopo la scoperta della
frode, perizia che attesta – come precedentemente rilevato - che il computer utilizzato
dalla ricorrente è risultato affetto da virus informatici e che tutte le credenziali della
ricorrente sono verosimilmente state esposte a terzi, deducendo da ciò che la stessa
abbia contravvenuto alle regole contrattuali che impongono diligenza nella custodia delle
credenziali informatiche.
Ora, se è indubitabile che il prelievo abusivo di fondi sul conto del cliente sia avvenuto
per effetto di un atto di pirateria informatica, questo Collegio non può non osservare che la
messa a disposizione dell’innovativo strumento di generazione della password non può
essere considerata di per sé prova (presuntiva) della violazione degli obblighi di custodia
in senso lato gravanti sul cliente; d’altro canto, resterebbe da provare che la ricorrente, per
il solo fatto di aver subìto un attacco informatico, abbia tenuto una condotta gravemente
negligente; in altri termini, è da dimostrare che l’attacco informatico ai danni della
postazione del cliente sia riconducibile ad una sua condotta gravemente omissiva e
negligente. Ostano a tale conclusione tanto l’affermazione del perito che nell’attestare la
visibilità a terzi delle credenziali informatiche per effetto del virus esplicitamente esonera la
ricorrente da ogni colpa o dolo al riguardo, quanto la stessa ammissione dell’intermediario,
su cui grava, come è ben noto, l’onere di dimostrare la colpa grave del cliente, di non
conoscere lo stato dell’apparato utilizzato prima della frode, essendosi egli limitato a
formulare alcune ipotesi, vale a dire che il p.c. fosse non protetto o non adeguatamente
protetto o non aggiornato. Per altro verso, emerge dalla vicenda che la ricorrente si sia
prontamente accorta della frode e che altrettanto tempestivamente si sia adoperata per
segnalare l’accaduto all’intermediario, tentando di bloccare l’operazione, e che abbia
senza indugio fatto verificare da un esperto il proprio apparato informatico. Consta altresì
che la ricorrente si è dotata sin dal 3.6.2010 del particolare dispositivo all’epoca da poco
offerto dall’intermediario alla propria clientela, così denotando particolare sensibilità ai temi
della sicurezza delle transazioni: elementi, tutti, che contrastano con il quadro di “grave
negligenza” ipotizzato dall’intermediario.
I fatti complessivamente esposti fanno ritenere a questo Collegio che l’intermediario non
abbia evidenziato elementi gravi, precisi e concordanti che lascino presumere una grave
violazione in capo alla ricorrente dell’obbligo di custodia delle proprie credenziali, tali da far
venir meno le previsioni favorevoli al cliente disposte dal decreto legislativo sopra citato.
Sicché, ad avviso di questo Collegio, e in applicazione del disposto di cui all’art. 12,
comma 3, del citato decreto legislativo, l’intermediario dovrà rimborsare alla ricorrente
l’importo di € 5.488,00 pari alla somma sottratta detratta la franchigia di 150,00 euro.
Quanto ai presidi di sicurezza disposti dal fornitore del servizio di pagamento, questo
Collegio, pur prendendo atto che l’intermediario ha dotato il cliente di un dispositivo
generatore di password, decisamente più avanzato rispetto alle credenziali statiche di
primo livello, ritiene di dover evidenziare elementi di criticità nel sistema di controlli
predisposti a presidio della sicurezza delle transazioni: ne è riprova il fatto che per un
bonifico di importo di poco superiore disposto pochi giorni prima dalla ricorrente
l’intermediario stesso avesse ritenuto opportuno acquisire una conferma preventiva,
laddove nella transazione contestata che, riguardando un bonifico internazionale rivestiva
carattere di maggiore delicatezza, siffatto controllo è venuto a mancare.
P.Q.M.
Il Collegio accoglie parzialmente il ricorso nei sensi di cui in motivazione.
Dispone inoltre che l’intermediario corrisponda alla Banca d’Italia la somma di Euro
200,00 (duecento/00) quale contributo alle spese della procedura e al ricorrente di
Euro 20,00 (venti/00) quale rimborso della somma versata alla presentazione del
ricorso.
COLLEGIO DI ROMA
Decisione N. 9538 del 25 ottobre 2016
Nella seduta del 15/07/2016 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
Fatto
Il ricorrente chiede la restituzione di euro 519,08 addebitatigli in seguito a tre operazioni
effettuate online utilizzando i codici della propria carta di credito, in seguito alla captazione
fraudolenta delle proprie credenziali (phishing).
L’intermediario resistente chiede il rigetto del ricorso, ritenendo che i fatti oggetto di
contestazione siano addebitabili al comportamento gravemente negligente del ricorrente.
Diritto
In base alle evidenze presentate dal ricorrente e dall’intermediario resistente è possibile
ricostruire i seguenti eventi:
? il 17.06.2015 il figlio del ricorrente – che utilizzava talvolta la carta di cui è titolare il
ricorrente – aderiva a un’offerta di telefonia mobile, rispondendo a un messaggio
fraudolento inviato alla propria casella di posta elettronica e usando per il
pagamento la carta prepagata del padre;
Decisione N. 9538 del 25 ottobre 2016
? dopo pochi minuti, il figlio del ricorrente riceveva un altro messaggio che lo
informava del fallimento della transazione;
? il 19.06.2015 venivano effettuate due transazioni online con la carta del ricorrente,
rispettivamente per euro 15,74 e 265,84;
? il 25.06.2015 veniva effettuata una terza transazione online con la carta del
ricorrente, per euro 237,50;
? il 19.07.2015, una domenica, il ricorrente, al momento di compiere un acquisto
online, verificava che il saldo sulla PostePay era di 0,43 euro, in luogo dei circa
500,00 euro che riteneva di possedere;
? dalla successiva verifica dell’estratto conto si avvedeva delle 3 operazioni
fraudolente;
? il 20.07.2015 il ricorrente denunciava l’accaduto all’autorità giudiziaria e si recava
presso la filiale dell’intermediario per disconoscere 3 le operazioni fraudolente.
Il caso si inserisce nell’ormai ampiamente dibattuto filone delle frodi su internet. A questo
proposito, la recente giurisprudenza dell’ABF è uniforme, ravvisando la colpa grave del
consumatore ogniqualvolta egli stesso comunichi le proprie credenziali in risposta a
messaggi chiaramente fraudolenti, salvo i casi in cui tali frodi assumano le dimensioni di
sofisticati meccanismi non individuabili dall’utilizzatore operando con il grado di diligenza
cui è tenuto. Si veda, tra le altre, la Decisione 4991/2016 del Collegio di Roma: “In
relazione al phishing non si può fare a meno di rilevare che si tratta di un fenomeno ormai
del tutto noto, tanto che qualunque utente dotato di normale avvedutezza e prudenza è in
grado di non farsi trarre in inganno. Il soggetto che ha materialmente consentito
l'esecuzione dell'operazione fraudolenta cooperandovi seppur involontariamente deve
essere ritenuto responsabile di quanto posto in essere. In simili situazioni emerge evidente
come il cliente sia vittima di una colpevole credulità: colpevole in quanto egli è portato a
comunicare le proprie credenziali di autenticazione al di fuori del circuito operativo
dell'intermediario e tanto più colpevole si rivela quell'atto di ingenuità quanto più si
consideri che tali forme di “accalappiamento” possono dirsi ormai note al pur non
espertissimo navigatore di Internet. A detta del Collegio nel caso di specie, ipotesi classica
di phishing, si ravvisa una colpa grave del ricorrente, avendo egli comunicato ad altri, in
risposta a un’email civetta, tutte le proprie credenziali per effettuare con regolarità i
prelevamenti. Preso atto di quanto sopra, il Collegio dispone il rigetto del ricorso, restando
assorbite tutte le ulteriori questioni nel merito.”
Nel caso specifico, il meccanismo utilizzato per il phishing è tra i più diffusi e conosciuti. E
la colpa grave del ricorrente è ancora più evidente per aver lasciato che la propria carta di
credito venisse utilizzata liberamente dal proprio figlio, probabilmente più sensibile di un
adulto alle sollecitazioni provenienti dall’invito ad aderire all’offerta per uno sconto sulla
telefonia mobile proposta nel messaggio fraudolento, e per questo motivo meno attento ai
profili di sicurezza.
PER QUESTI MOTIVI
Il Collegio respinge il ricorso.
COLLEGIO DI MILANO
Decisione N. 34 del 07 gennaio 2016
Nella seduta del 19/11/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
Con ricorso datato 7 febbraio 2015, il ricorrente riportava di aver ricevuto, da parte
dell’intermediario convenuto, una comunicazione datata 24 novembre 2011, con la quale
veniva avvertito che sul suo conto corrente era stata effettuata una transazione con
addebito di euro 1.251,00 per la ricarica di una carta prepagata. L’istante aveva, quindi,
proceduto a sporgere formale denuncia presso i carabinieri e aveva inoltrato reclamo
presso la resistente disconoscendo la menzionata operazione e chiedendo il rimborso
dell’importo sottratto fraudolentemente.
Riferiva, inoltre, che, con comunicazione del 2 dicembre 2014, l’intermediario si rendeva
disponibile a rimborsare solamente il 50% della somma richiesta (pari ad euro 625,00) in
quanto riteneva verosimile che il cliente fosse stato vittima di “phishing”, ovvero una frode
on-line ideata per sottrarre con l’inganno password, numeri di carta di credito e
informazioni personali della vittima. In tale occasione, inoltre, lo stesso aveva specificato
che la banca aveva più volte avvertito di prestare attenzione a tale fenomeno spiegando
che non avrebbe mai chiesto ai propri clienti di comunicare informazioni, personali relative
ai propri conti via e-mail. Aveva infine, aggiunto che la responsabilità della sicurezza dei
codici segreti era del correntista e che ciò includeva anche un controllo prudente del
browser e del sistema operativo del pc.
Il ricorrente aveva, quindi, presentato ricorso all’ABF reiterando le proprie istanze e
sottolineando di non aver compiuto alcun accesso al proprio conto tramite pc né di aver
accettato alcuna operazione via e-mail; evidenziava, inoltre, che l’intermediario, ritenendo
sospetta l’operazione, avrebbe anche dovuto procedere a bloccarla. Pertanto, chiedeva al
Collegio l’integrale restituzione dell’importo indebitamente sottratto, pari ad euro 1.251,00.
L’intermediario presentava le proprie controdeduzioni con le quali specificava che la
vicenda costituiva un classico caso di “phishing”. Spiegava, infatti, che il servizio
informatico fornito era dotato di un codice identificativo del cliente, password di accesso,
nota solamente al cliente stesso, e sistema OTP (One time password, chiavetta personale
o token che genera una nuova password ogni 60 secondi). Una volta eseguito l’accesso al
sito con le proprie credenziali ed inserito i dati della ricarica, per eseguire il pagamento
era, quindi, necessario inserire il codice token. Nel caso in questione, le verifiche effettuate
avevano riscontrato che il sistema informatico non aveva subito alcuna violazione e che
l’operazione contestata era stata eseguita inserendo correttamente tutti i dati richiesti,
compreso tale codice. Inoltre, l’intermediario specificava che l’operazione fraudolenta era
la ricarica di una carta prepagata: la ricarica, a differenza del bonifico, trasferiva la somma
richiesta direttamente dal conto corrente alla carta prepagata e in quest’occasione il
truffatore aveva immediatamente prelevato la somma fino al blocco della carta effettuato
dall’intermediario stesso.
La resistente, pertanto, riteneva che la responsabilità dell’operazione indebita fosse
attribuibile al ricorrente che non aveva diligentemente e prudentemente conservato i codici
di accesso. Inoltre, evidenziava che, nonostante non ritenesse di avere alcuna
responsabilità in relazione alla vicenda avvenuta, in nome dei buoni rapporti commerciali
intercorsi con il ricorrente, gli aveva proposto un rimborso pari al 50% dell’importo
sottratto, proposta che il cliente non aveva accettato. Chiedeva, quindi, al Collegio il totale
rigetto delle pretese dell’istante.
DIRITTO
La questione, riguardante la ripartizione della responsabilità tra le parti, in caso di
operazioni fraudolente eseguite mediante sistemi di internet banking a due fattori, risale ad
un periodo successivo all’entrata in vigore del d.lgs. n. 11/2010, attuativo della direttiva
comunitaria 2007/64/CE e, pertanto, deve essere valutata alla luce di tale disciplina. Il
Collegio, inoltre, nel valutare la vicenda in esame deve tenere presente che il sistema
informatico dell’intermediario è un sistema a due fattori, ovvero un sistema che per
l’autorizzazione delle operazioni on-line affianca all’inserimento del codice identificativo e
della password, noti solo al cliente, un secondo sistema di autenticazione denominato
OTP che genera una password monouso ogni 60 secondi di cui solamente il cliente deve
essere a conoscenza e che deve essere correttamente inserita. A tal proposito, il Collegio
rileva che secondo un orientamento ormai consolidato dell’ABF (Collegio di
Coordinamento, decisione n. 3498/2012 e Collegio di Milano, decisione n. 111/2012),
l’adozione di un sistema a due fattori, induce a presumere da una parte, che
l’intermediario abbia assolto i propri doveri probatori relativi agli obblighi su di esso
gravanti ai sensi dell’art. 8, d.lgs. n.11/2010 e, dall’altro, che il cliente si sia reso
gravemente negligente in relazione al dovere di custodia e segretezza dei codici di
accesso che consentono l’accesso ai servizi on-line e l’invio di ordini a valere sul conto
allo stesso intestato. Tale orientamento si fonda sul fatto che, allo stato attuale,
l’autenticazione tramite sistema OTP risulta essere la più sicura possibile e da ciò
consegue che, nel caso in cui tale sistema venga adottato, non sia possibile alcuna
intrusione esterna se non mediante la collaborazione, seppur involontaria, del cliente,
cooperazione consistente nella mancata custodia dei codici di autenticazione e di accesso
e nella loro trasmissione a terzi. Tuttavia, il Collegio ritiene di dover anche tenere presente
gli orientamenti del Collegio di Roma (decisione n. 2264/2012) e di Napoli (decisione n.
1583/2012) i quali, pur riconoscendo la spiccata capacità protettiva del sistema OTP,
hanno contestato l’automatismo deduttivo dal quale si fa dipendere l’irreversibile
presunzione di responsabilità in capo al cliente, dipendente dalla sola adozione del
sistema OTP da parte dell’intermediario. Infatti, è stato sottolineato che l’onere probatorio,
così come delineato dalla normativa applicabile, non consentirebbe di pervenire ad un tale
automatismo dovendosi considerare oltre al meccanismo offerto anche l’intero sistema di
controlli predisposto dall’intermediario, ben potendosi configurare così la circostanza in cui
la cattura dei codici da parte di terzi possa avvenire anche in presenza di un
comportamento diligente del cliente; ciò in quanto i sistemi tecnologici in continua
evoluzione rendono sempre più insidiosi i metodi di aggressione informatica.
Considerato quanto fin ora esposto, il Collegio ritiene di doversi conformare alle posizioni
dei Collegi di Roma e di Napoli e, in considerazione della disciplina della PSD, ricorda che,
ai sensi dell’art. 10, co. 1 del d.lgs. n. 11/2010, il disconoscimento del cliente
dell’operazione fraudolenta implica l’inversione dell’onere probatorio, sicché è
l’intermediario a dover dimostrare che l’operazione contestata è stata autenticata,
correttamente registrata e contabilizzata. Nel caso di specie, l’intermediario ipotizza che il
cliente si stato vittima di “phishing” e che abbia, anche se inconsapevolmente, fornito le
proprie credenziali e codici d’accesso ai truffatori, ma non ha prodotto evidenze al
riguardo, né alcuna prova relativa alla cooperazione del cliente nel fornire le chiavi di
accesso on-line del proprio conto. Pertanto, in conformità a quanto fin ora esposto e in
applicazione del dettato del d. lgs. n . 11/2010, il Collegio ritiene che, in difetto di qualsiasi
elemento a suo carico, nessuna responsabilità possa essere concretamente attribuita al
ricorrente, il quale deve essere, quindi, rimborsato dell’intera somma sottrattagli
indebitamente.
PER QUESTI MOTIVI
Il Collegio, in accoglimento del ricorso, dispone che l’intermediario corrisponda alla parte
ricorrente la somma di € 1.251,00.
Il Collegio dispone inoltre, ai sensi della vigente normativa, che l’intermediario corrisponda alla
Banca d’Italia la somma di € 200,00, quale contributo alle spese della procedura, e alla parte
ricorrente la somma di € 20,00, quale rimborso della somma versata alla presentazione del
ricorso.
COLLEGIO DI BOLOGNA
Decisione N. 4785 del 04 maggio 2017
Nella seduta del 20/04/2017 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
Parte ricorrente espone di essere titolare della carta di credito prepagata n. *****9
rilasciata dall’intermediario convenuto, sulla quale in data 14.11.2016 è stato addebitato
l’importo di 2.337,00 euro, relativo ad una operazione di pagamento mai effettuata, né
autorizzata.
In particolare, riferisce:
- che in data 13.11.2016, rispondendo ad una offerta promozionale via SMS
apparentemente ricevuta da un noto gestore telefonico, “cliccava” sul link
www,.... S indicato nello sms e approdava su un sito apparentemente
riconducibile al predetto gestore, ove inseriva il numero della carta di credito, la data di
scadenza e il codice CVC/CVV;
- non ricevendo l’SMS contenente la password dispositiva per completare il pagamento da
parte dell’intermediario, comunicava l’indirizzo della propria posta elettronica, come
richiesto dal sito stesso per avere conferma del fatto che l’operazione non era andata a
buon fine;
- provava, pertanto, ad effettuare la transazione mediante un’altra carta di credito
prepagata di cui era titolare (rilasciata, sempre, dall’intermediario resistente), non
riuscendo, però, a concludere la transazione neanche con la suddetta carta;
- in data 14.11.2016 come anticipato da un SMS all’apparenza proveniente dall’
intermediario, riceveva un SMS dell’intermediario stesso contente una password
dispositiva, che provvedeva a comunicare, in risposta ad un ulteriore messaggio
proveniente da un cellulare;
- tra il 15 e il 17.11.2016 riceveva diversi SMS da parte dell’intermediario, contenenti
password dispositive, delle quali non faceva alcun uso e che anzi non le avevano causato
alcuna preoccupazione (aveva pensato che gli invii fossero dovuti allo “sblocco” del
sistema di pagamento on line);
- in data 20.11.2016, a seguito di un controllo sull’apposita applicazione del telefono, si
accorgeva del fatto che mediante la propria carta n.****4059 era stata effettuata
un’operazione dell’importo di 2.337,00 euro, ancorché la carta fosse sempre rimasta nella
sua disponibilità e mai ceduta a terzi).
Pertanto, la ricorrente chiede la restituzione dell’importo di 2.337,00 euro poiché l’operazione non è stata effettuata né autorizzata dalla medesima.
L’intermediario resiste al ricorso ed espone quanto segue.
In data 20.11.2016 la ricorrente denunciava l’avvenuto addebito sulla carta n. ****4059
della somma di 2.431,88 euro, contestando, pertanto, la legittimità di tale addebito, relativo
a n. 6 transazioni on line rispettivamente di 25,80 euro, 2.337,00 euro, 18,98 euro, 15,90
euro, 16,20 euro e 18,00 euro; dai fatti esposti nella denuncia (e nella sua successiva
integrazione) emerge che la ricorrente, per sua stessa ammissione, è caduta vittima di
un’operazione di “phishing”.
È stato possibile procedere stornare 5 delle 6 operazioni disconosciute, ma non quella di
ammontare più elevato, risultata regolarmente eseguita come dimostrano i “log”; è stato
adottato un sistema di sicurezza a due fattori, per le operazioni on line, che prevede l'
utilizzo di un dispositivo OTP (c.d. one time password).
Alla ricorrente è imputabile una violazione gravemente colpevole degli obblighi di custodia
dei propri dati identificativi e dispositivi on line e ritiene che il danno subito dalla ricorrente
sia ascrivibile, interamente, alla sua condotta, o, quanto meno, essa ha concorso a
cagionarlo ex art. 1227 c.c. Infatti, l’utilizzo fraudolento della carta di credito si è verificato
nonostante la predisposizione di sofisticati mezzi di protezione, quali quelli basati
sull’utilizzo di un token (one time password).
L’intermediario conclude quindi per il rigetto del ricorso.
DIRITTO
- 1. - La ricorrente lamenta l’utilizzo fraudolento della sua carta prepagata avvenuto in data
14 novembre 2016 ed avente ad oggetto una somma di € 2.337,00 prelevata con una sola
operazione.
Dalla ricostruzione dei fatti emerge pacifico, per la stessa ammissione da parte del
ricorrente, che ella abbia inconsapevolmente aderito all’attacco di phishing, ritenendo di
operare sul sito dell’intermediario. È altresì pacifico come nel caso di specie l’operazione fraudolenta sia stata posta in essere mediante l’inserimento dei dati identificativi rilevabili
sulla carta e del codice OTP inviato a mezzo SMS (sistama di sicurezza c.d. a due fattori).
Più precisamente la ricorrente è rimasta vittima di una nuova modalità di phishing il c.d.
smishing. Si tratta, infatti, di una ipotesi caratterizzata non dall’invio di una email ma,
piuttosto, di un SMS. Segnatamente, in tali casi l’utente è raggiunto da un SMS
contenente la richiesta di cliccare su di un link e, quindi, di raggiungere una pagina web.
Per ingannare il destinatario si fa leva su meccanismi psicologici, come l’urgenza o la
possibilità di ottenere un vantaggio personale. Gli utenti, dopo aver cliccato sui link,
approdano in siti online artefatti che chiedono l’inserimento di dati personali, carpendo, in
tal modo, le credenziali di utilizzo degli strumenti di pagamento.
- 2. - La responsabilità dell’emittente di una carta prepagata per il suo utilizzo non
autorizzato è disciplinata dall’art. 12 del d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, il quale ha attuato
nell’ordinamento giuridico italiano la direttiva 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento
nel mercato interno europeo.
Nel caso di specie, la responsabilità dell’emittente è disciplinata pertanto dall’art. 12,
comma 3, del medesimo decreto, il quale statuisce che, «salvo il caso in cui abbia agito
con dolo o colpa grave ovvero non abbia adottato le misure idonee a garantire la sicurezza
dei dispositivi personalizzati che consentono l’utilizzo dello strumento di pagamento, prima
della comunicazione eseguita ai sensi dell’art. 7, 1° comma, lett. b), l’utilizzatore
medesimo può sopportare per un importo comunque non superiore complessivamente a €
150,00 la perdita derivante dall’utilizzo indebito dello strumento di pagamento
conseguente al suo furto o smarrimento».
In virtù di tale disposizione legislativa, il prestatore di servizi di pagamento può escludere
la propria responsabilità per l’utilizzo non autorizzato di uno strumento di pagamento
soltanto provando la colpa grave dell’utilizzatore, la quale costituisce un fatto impeditivo
del risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 2697, comma 2, c.c.
A tale proposito, si deve in generale premettere che, secondo la giurisprudenza di
legittimità, la colpa grave è costituita da una «straordinaria e inescusabile» imprudenza,
negligenza o imperizia, la quale presuppone che sia stata violata non solo la diligenza
ordinaria del buon padre di famiglia di cui all’art. 1176, comma 1, c.c., ma anche «quel
grado minimo ed elementare di diligenza generalmente osservato da tutti» (Cass., 3
maggio 2011, n.913; Cass., 19 novembre 2001, n.14456).
È bensì vero che, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. b), del d.lgs. n.11 del 2010, il titolare di
uno strumento di pagamento ha l’obbligo di «utilizzare lo strumento di pagamento in
conformità con i termini, esplicitati nel contratto-quadro, che ne regolano l’emissione e
l’uso». Tuttavia, l’art. 10, comma 2, del d.lgs. n.11 del 2010 statuisce che, «quando
l’utilizzatore di servizi di pagamento neghi di aver autorizzato un’operazione di pagamento
eseguita, l’utilizzo di uno strumento di pagamento registrato dal prestatore di servizi di
pagamento non è di per sé necessariamente sufficiente a dimostrare che l’operazione sia
stata autorizzata dall’utilizzatore medesimo, né che questi abbia adempiuto con dolo o
colpa grave a uno o più degli obblighi di cui all’art.7».
- 3. – Nel caso di specie, appare evidente dalla ricostruzione offerta dalla ricorrente
l’intrusione non autorizzata nel sistema - lungi dall’essere causata da un insufficiente
grado di protezione informatica e dal servizio offerto dall’intermediario - appare ascrivibile
a colpa grave del cliente che ha inserito anche in codice dispositivo OTP ricevuto via SMS
consento la corretta autenticazione dell’operazione.
Questi, per sua stessa ammissione è certamente incappato, per l’appunto, nel “phishing”,
con conseguente utilizzo abusivo delle sue credenziali di accesso, utilizzate per compiere
operazioni non disposte dal titolare dello strumento. Come statuito dal Collegio di
Coordinamento (decisione n. 1820/13), nell’ipotesi del ‘phishing’, “il cliente è vittima di una
colpevole credulità: colpevole in quanto egli è portato a comunicare le proprie credenziali
di autenticazione al di fuori del circuito operativo dell’intermediario e tanto più colpevole si
rivela quell’atto di ingenuità quanto più si consideri che tali forme di “accalappiamento”
possono dirsi ormai note al pur non espertissimo navigatore di internet”. In considerazione
di tale orientamento – che questo Collegio ritiene di condividere – e delle risultanze agli
atti allegati dalle parti, deve ritenersi che parte ricorrente sia incorsa nella violazione degli
obblighi prescritti dall’art. 7 del D. Lgs. n. 11/2010. Ne consegue che nel comportamento
della ricorrente è ravvisabile la colpa grave che, ai sensi dell’art. 12, commi 3 e 4, del
richiamato decreto, non consente di accogliere la sua richiesta di rimborso della somma
indebitamente sottratta (cfr. Coll Roma, dec. n. 3076/2015; Coll. Milano, dec. n.
8841/2016; Coll. Roma, dec. n. 8487/16, Coll. Napoli, dec. n. 1965/2017).
PER QUESTI MOTIVI
Il Collegio non accoglie il ricorso.