Riflessioni critiche sull’incertezza del diritto
Chi esercita la professione forense da anni – e in particolare chi ha quotidiana dimestichezza con le aule giudiziarie – sa bene che uno dei problemi più insidiosi del nostro sistema giudiziario non è solo la lentezza del processo, ma la sua imprevedibilità.
La giustizia italiana, oggi più che mai, appare labile, soggetta a oscillazioni interpretative tali da minare uno dei principi cardine dello Stato di diritto: la certezza del diritto.
Un diritto incerto: le oscillazioni giurisprudenziali
Sempre più frequentemente, assistiamo a pronunce profondamente divergenti tra loro, anche su questioni giuridiche apparentemente consolidate.
Non solo nei tribunali di merito – dove il pluralismo delle decisioni potrebbe essere in parte comprensibile – ma anche in Cassazione, la cui funzione nomofilattica dovrebbe, almeno in teoria, garantire l’uniformità e la coerenza applicativa della legge.
Eppure, capita che sezioni diverse della Suprema Corte si esprimano in modo antitetico sul medesimo istituto, costringendo gli operatori del diritto a un faticoso esercizio di interpretazione delle interpretazioni.
Spesso con risultati del tutto insoddisfacenti.
L’influenza eccessiva del giudice-persona
A ciò si aggiunge un elemento di natura soggettiva, ma altrettanto rilevante: l’opinione personale del singolo giudice.
È una verità spesso sussurrata nei corridoi degli studi legali, ma raramente affrontata pubblicamente. L’impressione – che purtroppo trova conferma nei fatti – è che la sorte di un processo dipenda più dal magistrato a cui viene assegnato che dalla solidità delle argomentazioni giuridiche.
È come se il processo non fosse più “contro” una norma o un comportamento, ma “davanti a” una sensibilità individuale. In alcuni casi, questo può tradursi in una giustizia empatica e umana; in molti altri, purtroppo, diventa arbitrio.
La crisi del collegio giudicante
A peggiorare il quadro vi è una progressiva riduzione dei giudizi affidati a collegi.
La riforma Cartabia e i successivi orientamenti organizzativi dei tribunali hanno privilegiato, per ragioni di efficienza, il giudice monocratico.
Ma se da una parte ne gioverebbe l’efficienza (che peraltro, a distanza di anni, ancora deve essere dimostrata), c’è chi paga il conto salato di una perdita di qualità delle pronunce. Ci si riferisce ovviamente a Giudici che per errore interpretano male i fatti (perché di corsa) o non approfondiscono una massima di Giurisprudenza travisandone il principio di diritto (caso concreto).
Quindi, scelta comprensibile in ottica di smaltimento del carico pendente, ma deleterio sul piano della qualità e coerenza delle decisioni.
Il collegio, con la sua dialettica interna, era un presidio di confronto, di bilanciamento e di ponderazione. Oggi, troppo spesso, la decisione di una causa complessa è nelle mani di un unico magistrato, esponendola maggiormente a influenze soggettive, emotive, o ideologiche.
Per non parlare dei magistrati non togati.
Contrasti interni agli stessi uffici giudiziari
Il paradosso più evidente è che perfino all’interno dello stesso tribunale, su materie e liti quasi identiche, si registrano pronunce in aperto contrasto.
È ormai prassi – non eccezione – che due sezioni diverse dello stesso foro giungano a decisioni opposte, a distanza di pochi mesi o settimane, in presenza di presupposti fattuali e normativi pressoché identici.
Questo fenomeno non solo genera disorientamento tra gli Avvocati, ma compromette la fiducia dei cittadini nella giustizia, che appare come una sorta di lotteria giuridica.
Giustizia a geometria variabile: esempi
Non mancano esempi a sostegno di queste riflessioni.
In ambito penale, basti pensare alle divergenze sulle condizioni per l’applicabilità della legittima difesa domiciliare: per alcuni giudici, è sufficiente la semplice intrusione; per altri, serve la prova concreta del pericolo imminente.
Oppure agli incidenti a rilevanza penale sul lavoro. Quando il Giudice vuole proseguire il processo trova il modo di tener conto della condotta dell’imputato, escludendo qualsiasi concausa (in teoria anche) prevalente ai sensi dell’art. 41 cp. Quando invece si ritiene di voler chiudere il processo, si liquida la persona offesa con un generico riferimento al fatto che le carenze organizzative relative alla sicurezza sul lavoro non sono in rapporto causale con l’incidente occorso. Troppo comodo, nonostante i numerosi precedenti di Cassazione ad illuminare la strada.
In tema di locazioni commerciali poi si assiste ad un vero e proprio turbine di diritto fantasia. Nello stesso Tribunale abbiamo osservato sulla medesima questione pronunce diametralmente opposte, risolte solo dopo oltre 7 anni di contenzioso fino al secondo grado di giustizia.
Nel campo del diritto del lavoro, alcune sezioni di merito hanno ritenuto che il superamento del periodo di comporto debba essere valutato con flessibilità, tenendo conto anche delle patologie gravi, mentre altre – nello stesso distretto – si sono attenute a un’interpretazione rigorosamente letterale.
In tema di azione amministrativa, anche se è stato depenalizzato l'abuso di ufficio, rimane tutta una serie di continue oscillazioni sul danno erariale. Talvolta, anche scelte che sembrano a favore della collettività rischiano di diventare un pericoloso boomerang da pagare a caro prezzo in termini economici e di immagine.
Nel diritto di famiglia, poi, le prassi variano sensibilmente da un giudice all’altro nella valutazione dell’affido condiviso, della collocazione prevalente e perfino nel trattamento economico dell’assegno di mantenimento, con conseguenze profondamente diverse per i soggetti coinvolti.
La Giustizia è ancora autorevole?
Non si può tacere che questa imprevedibilità mina alla base l’autorevolezza della giustizia.
Il cittadino ha diritto non solo a un processo equo e in tempi ragionevoli, ma anche – e soprattutto – a un diritto “uguale per tutti”.
Una giustizia che cambia volto a seconda del giudice, della sezione o della città non è più giustizia, ma esercizio discrezionale del potere.
È tempo, forse, di riflettere non solo sulle riforme strutturali, ma anche su quelle culturali. Uniformare l’interpretazione del diritto non significa comprimere la discrezionalità, ma restituire coerenza, prevedibilità e rispetto per il principio di legalità.
Senza queste condizioni, il processo non è più uno strumento di tutela, ma una rischiosa scommessa anche per chi ha le ragioni dalla sua.
Con queste premesse, la scelta del proprio Avvocato di Fiducia diventa ancora più importante.